(g. ar.) - Se il nome Aron Hector Schmitz dice ancora oggi qualcosa a qualcuno i pessimisti a oltranza sui livelli culturali dei nostri tempi possono anche far fagotto. Ma qui l’iperbole è al contrario, l’ipotesi sarebbe ottimistica a oltranza -com’è- e si è costretti a precisare che quel tale Aron Hector altri non è che Italo Svevo, un austriaco di Trieste che per scrivere adottò lo pesudonimo che lo rendeva istantaneamente italiano, con la rapidità del caffè solubile; ma un austriaco di Trieste che dopo aver rischiato a lungo di attraversare il panorama letterario dentro una specie di navetta anonima ed automimetizzante ha assunto le sue vere dimensioni nel trascorrere dei decenni. E ci si è accorti che quella scrittura, così apparentemente remota alle tinte mediterranee, in realtà era ed è una delle propaggini finali di quella mittle Europa che ebbe, come si sa, molti altri fenomeni letterari, da Joseph Roth a Sandor Maray, da Isac Singer a Thomas Mann. Una schiera infinita, ma Svevo vanta una matrice italica che lo distacca dal gruppo rendendolo particolare: sa, ricorda e maneggia riferimenti che portano ad altro, ad esempio, a Giacomo Leopardi. E si crea una matassa complicata e affascinante. La dipana nella sua tesi di laurea Laura Campagnolo. Un’operazione che va molto oltre le formalità di un percorso di studi giunti all’epilogo con il miglior successo. È una pagina che la neolaureata potrebbe riaprire con approfondimenti ulteriori e imprevedibili. Nel contesto attuale già soltanto questo lavoro è comunque una sventolata frizzante di un’aria pochissimo reperibile e della quale ci sarebbe un gran bisogno.
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