NR. 41 anno XXVIII DEL 25 NOVEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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“Io”, quando il teatro è ricerca

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Antonio Rezza

Tu dici che non interagisci col pubblico ma che lo colpisci, che lo utilizzi come elemento di spazio scenico, però ci scambi battute ed esso risponde ai tuoi input.

«In quelli successivi non c'è più questo, non sto nemmeno più dietro ai quadri: ci sono delle sculture che ha fatto Flavia e che sono degli habitat dove io sto più col corpo fuori. Questa tecnica, dopo questo spettacolo, l'abbiamo eliminata perché avevamo visto che funzionava; allora, per non creare un teatro "di genere", abbiamo deciso, in modo del tutto spontaneo, di abbandonare. Flavia ha creato delle sculture con cui poi fa le mostre: io lavoro con delle sculture mobili negli spettacoli successivi. Poi il pubblico sta lì, non puoi far finta che non c'è».

Sì, ma si sente protagonista.

«Il pubblico è protagonista come pubblico, fa la parte del pubblico: non è così frequente rispetto alla drammaturgia dello spettacolo, questa trasgressione».

Nell'avanspettacolo e nel cabaret si trova spesso questa cosa dell'artista che scende e stuzzica lo spettatore.

«Ma il cabaret fa schifo! Non è sperimentale, è interattivo! Il cabaret parla di cose che il pubblico conosce, io no: non parlo di delitti di massa e di stato che poi diventano teatro di massa e di stato. Noi facciamo un ritmo che il pubblico non conosce».

Sì, ma non solo ritmo, è anche contenuti: la scena in cui tu dissacri e ridicolizzi certi imprenditori sociali che speculano sulle disgrazie e che se i problemi non ci sono, li creano: non c'è il terremoto? Allora picconiamo la casa, così ci sono delle macerie; non ci sono drogati? Allora il personaggio si droga, così c'è qualcuno da aiutare su cui speculare, eccetera.  E la gente ride di tutte queste cose.

«Questa cosa non c'è più: è consolatorio che ci sia una vicenda, qui. Sono passati pure 12 anni: chi viene a vedere i nostri spettacoli oggi, non capisce assolutamente nulla dall'inizio alla fine, però reagisce come stasera».

Come riesci a fare un teatro che la gente non capisce?

«Io non dico che la gente non capisce, dico che non ha la percezione di un filo conduttore, perché di fatto non c'è. Poi, perché la gente deve per forza capire? C'è un teatro di comprensione, esiste, è foraggiato dallo Stato, è bene che ci sia perché è giusto che ci sia diversità. Noi facciamo un teatro diverso, non finanziato, autonomo, sano e giocoso, drammatico e tutto. È veramente libero perché non dipende da quanti soldi ci siano all'inizio, ma da quanta voglia c'è di fare quella cosa, all'inizio».

Avete una valanga di idee. Come fate a non mettere un freno alla fantasia nel momento in cui, bene o male, nella società ci si vive e si hanno almeno alcuni vincoli? Che tipo di lavoro fate anche su voi stessi?

«Fai un lavoro per cui dalla mattina alla sera ti imponi che quello che fai è la cosa più importante, basta».

Ma non salveresti niente nella società che ti circonda? Dissacri tutto?

«Non lo so, come persona sono anche abbastanza gentile e questo è smitizzante, è meglio essere stronzi: allora lì hai la visione dei bambini, perché loro sono così, sono onnipotenti e quando sei lì (sul palco, ndr) sei onnipotente. Sceso da lì uno vale molto meno, io dovrei stare sempre lì. Il gioco è finito quando uno scende da lì, perché diventa necessariamente spiegabile e perde di fascino. Il linguaggio è stratificato e ognuno ci vede quello che vuole, ma io so quanti altri significati ci sono, però è inutile dirli: quello che arriva è interpretabile e va bene quello che passa. Dopo si tende a spiegarlo e, come diceva Cioran, è penoso».

nr.04/15 del 3 febbraio 2010

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