NR. 41 anno XXVIII DEL 25 NOVEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Uno Shakespeare “amletocentrico”

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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I sonetti sono stati musicati, si sentono strumenti come il clavicembalo.

«Sì, ci sono un clavicembalo, un flauto, una viola. Poi ci sono delle parti di musica campionata con un synth che riproduce il suono di strumenti tradizionali».

Con che criterio sono state scritte le musiche?

«Sulla base delle suggestioni: ho dato delle indicazioni al Mº Valtinoni che è pianista, tastierista e compositore».

Come mai, nella scena del dialogo con Polonio, ha messo in testa ad Amleto un cappello a cilindro? È stata una scelta estemporanea oppure c'è un motivo specifico?

 «Nei costumi non c'è un'epoca definita e volevo dare l'idea di un abbigliamento un po' folle. Ci voleva un elemento che contribuisse a rendere questo suo vagare per il castello, non come ce lo ricordiamo nel film di Laurence Olivier, sempre con questa tenuta nera quasi "claustrale", vederlo un po' diverso. Mi aveva incuriosito proprio il film di Zeffirelli, che io ho amato moltissimo: il fatto che Gibson, nella scena, avesse un calzino solo. Da lì quella trasandatezza che poteva essere espressa con un cappello a cilindro, un po' vetusto».

Nel monologo "Essere o non essere" viene applicato un riverbero alla voce e Amleto è in bilico sulla struttura laterale a gradoni, poi scende sulle tavole del palco. Non sembra solo un dubbio esistenziale ma un omaggio al teatro, come se lui si chiedesse: "Verità o finzione? Persona o personaggio?". Poi arriva subito la compagnia di giro; invece dopo "Essere o non essere" c'è il dialogo con Ofelia , che lei ha spostato.

«Sì, mi piaceva il passaggio brusco da ‘Essere o non essere' all'arrivo degli attori. La cosa del riverbero era per creare un'idea di monologo interiore. A me interessava isolare in verticale questo personaggio, in modo che potesse staccarsi da terra in quel momento, quasi fosse stato leggero come il pensiero; nello stesso tempo in una situazione di pericolo, di caduta o, comunque, di desiderio di cadere. L'idea che mi interessava di più era il fascino della vertigine del vuoto».

Ciò che ricorre, ed è favorevole all'espressione dell'atmosfera macabra di queste opere, sono appunto gli elementi fantastici: qui il fantasma, nel Macbeth la visione del coltello che ossessiona Lady Macbeth. Queste situazioni sono abbastanza tipiche di tutta la letteratura nordica, poi spariscono con l'avanzare del ‘900 e rimangono solo al cinema. Nella letteratura e drammaturgia contemporanee non esistono più questi elementi di orrore fantastico.

«Per parlare di questo, dovremmo affrontare il concetto di Purgatorio: anche nell'uso teatrale, queste anime sono relegate in un luogo dove non sono né vive né morte. Il cinema, adesso, va pazzo per queste figure di non morti. Dal punto di vista scenico, in teatro, è spesso imbarazzante creare figure teatrali decorose quando non si tratta di commedie o di commedia dell'arte».

Come mai? Perché il teatro è troppo vivo rispetto al cinema?

 «No, perché una figura fantastica in un contesto drammatico rischia di diventare comica. Io ho fatto apparire comunque lo spettro, dopo, anche a rischio di farlo sembrare troppo reale: in un contesto così immaginario poteva risultare grottesco. È il problema principale in questi casi. Far comparire la figura fantastica è una cosa che si fa nel teatro per ragazzi, nelle fiabe o nella commedia dell'arte o comunque quando si portano in scena strutture drammaturgiche legate a personaggi tipici delle leggende popolari».

L'arte è illusione. La finzione, nel teatro, è reale e verità. "Essere o non essere": l'essere è realtà e la finzione è nel teatro?

«No. Il teatro è assolutamente realtà. La finzione vera è nella vita reale di tutti i giorni dove, credo, si finga molto di più. Nel teatro vengono fuori anche le cose peggiori di noi».

Quindi "essere" nel teatro e "non essere" nella vita reale.

«Sì».


nr. 04/15 del 3 febbraio 2010 

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