Questa è forse la pièce più famosa del "teatro dell'assurdo". A voi attori cosa lasciano questi personaggi così decontestualizzati rispetto al teatro della narrazione?
Gigio Alberti: «Si possono trovare dei punti di riferimento: è un po' come se lui avesse messo i due personaggi sotto vuoto per molto tempo e il distillato che ne esce è l'essenza dell'uomo. In condizioni normali ciò che siamo appare con meno violenza e forza, qui è più prorompente. La loro è un'esperienza che conosciamo tutti: l'attesa di qualcosa che ci cambi la vita».
Questo testo è stato rappresentato per la prima volta nel '53 . i due personaggi Pozzo e Lucky prima erano stati definiti un'allegoria del nazista aguzzino dell'ebreo, successivamente altri hanno suggerito l'idea del capitalista e il proletario legati da un filo sempre più corto e necessari l'uno all'altro. Ci sono altre figure della società o rapporti simbolici che possono essere rappresentati da questi due personaggi? Come mai la critica sembra soffermarsi di più su di loro che non su Estragone e Vladimiro?
G.A.: «Credo che sia perché sono meno facili da interpretare e questo acuisce la voglia di dare loro "un nome e un cognome". La risposta alla domanda "chi sono?" non si chiuderà mai: a seconda del periodo storico in cui il testo viene rappresentato, ognuno ci mette le figure che vuole. I dati concreti che Beckett ti dà nel testo sono che uno era maestro dell'altro e che ora invece è diventato dipendente. L'interpretazione cambia perché sono due personaggi aperti»
Estragone e Vladimiro aspettano qualcuno che non si vede e che non si capisce nemmeno bene chi sia. Godot sembra quasi un entità astratta che fa da pretesto per scrivere una scena lunghissima in cui non succede niente. C'è anche un gioco di parole tra "god = dio" e "dot = punto". In tutto questo immobilismo quasi metafisico, ad un certo punto, si presenta la possibilità del suicidio che però poi non viene compiuto. Sembra che la negazione estrema e l'irreversibilità del suicidio siano considerate inutili rispetto a una realtà che non cambia. Che idea vi siete fatti di questo momento particolare della pièce?
Mario Sala: «Le loro vite sono arrivate ad essere inutili e prive di senso. L'impressione che si ha leggendo è che per questi due personaggi il suicidio non presenti necessariamente una scelta estrema ma solo una possibilità delle tante di occupare il tempo, visto che c'è un albero. Non lo si percepisce mai con l'assolutezza drammatica di una scelta finale. È un tipo di teatro in cui i significati non sono mai esibiti o sottolineati e le scelte non hanno mai un peso in una direzione o in un'altra».
C'è poi tutta una serie di speculazioni possibili riguardo al tempo e allo spazio così dilatati ma al tempo stesso minimali. Spazio e tempo vengono resi anche nello stile di scrittura: non c'è una narrazione vera e propria. Quali sono i segni che portano avanti l'azione in questa specie di "still frame" teatrale?
M.S.: «L'azione è circolare e credo che questa circolarità sia ciò che meglio esprime il senso della faccenda. Ognuno di noi ci si ritrova: se guardi da vicino le nostre piccole vite, non sono così diverse. Il ripetere ogni giorno, il ritornare sempre sugli stessi pensieri, il crearsi delle aspettative riguardo a qualcosa che forse non arriverà mai. I passaggi che stabiliscono l'azione sono forse proprio questi: la pipì, il male ai piedi, il cappello eccetera, sono dei piccoli "riti" che permettono di compiere il giro e di ritrovarsi all'inizio».