G.A.: «Come in tutte le cose che si sono inglobate, oggi, anche questi tipi di scrittura ora sono diventati parte delle mille correnti che esistono. Come c'è gente che scrive in questa direzione ce n'è anche che invece scrive storie più tradizionali, lo sviluppo dei sentimenti, la costruzione di un testo, così com'era prima che arrivasse il teatro dell'assurdo o questo tipo di sovvertimento dei linguaggi artistici».
Testi così spogli e minimali possono davvero scatenare la fantasia di registi e attori. C'è più il rischio che gli allestimenti fantasiosi tradiscano la natura delle opera oppure che invece offrano una chiave di lettura attuale rinnovando e mantenendo le opere eterne?
M.S.: «Beckett ha lasciato tutta una serie di disposizioni molto precise riguardo alle messe in scena, ci sono dei canoni dai quali non è possibile allontanarsi più di tanto. Evidentemente lui non riteneva molto necessario entrare pesantemente nel campo dell'interpretazione e che lì ci fosse tutto quello che dovesse esserci. Io credo che comunque qualche piccola libertà sai giusto concedersela purché non diventi irrispettosa del testo».
G.A.: «Questi testi è importante prenderli sul serio. Bisogna davvero confrontarsi. Quando la tua libertà è limitata da quello che dice lui, quando non c'è tutto quello spazio che uno pensa ci possa essere, si gira attorno a un punto senza andare molto distante: risulta quasi più difficile stravolgere una cosa del genere che non una storia tradizionale».
Il problema del tempo, in pièces come queste, viene sollevato non solo dalla durata della messa in scena stessa ma anche dal tempo che essa stessa rappresenta. non succede niente: che differenza ci sarebbe se durasse 5 minuti o tre ore?
G.A.: «L'azione si svolge in due giorni, in 5 minuti non sarebbe recepito. Potrebbe essere una performance che si ispira ma il passaggio dei due giorni in cui si vede che il giorno prima è uguale al giorno dopo (e non succede niente), se non ne fai almeno due, non si capisce che quei due lì saranno come quelli che verranno e come tutti quelli che sono passati. Il problema è che la gente non si annoi: la gente sente il peso dell'attesa ma questo risultato, che deve esserci, non deve passare attraverso la trasposizione immediata di quello che fai. Le loro vite sono vuote ma al tempo stesso piene perché il loro discutere crea loro un'occupazione. Che poi, se vai a vedere, è un pieno che finisce svuotato perché sono cose che ti permettono di tappare un buco ma che non hanno un peso specifico così grande».
Dal punto di vista della recitazione che ruolo ha il corpo in questo genere di teatro?
G.A.: «Non avendo questa costruzione psicologica, lui sceglie due clown-barboni, due che con il corpo ci lavorano...».
Si ma non gli fa fare niente.
G.A.: «Si ma sono un'immagine ben precisa che toglie di mezzo la "normalità" e la "realtà", sono due figure a metà tra la realtà e la fantasia: il corpo deve portare addosso i segni di tutto il tempo che è passato prima e di tutto quello che dovrà passare dopo».
Spesso si pensa che l'arte sia stravaganza. Molti artisti invece lavorano per sottrazione fino a lasciare l'essenza. Perché spesso non si riconosce l'arte in pochi tratti essenziali e cosa vuol dire recitare per sottrazione?
M.S.: «Vuol dire cercare una strada che sia quella dell'essenzialità, senza calcare i segni, che nel caso di Beckett sono molto puliti e precisi, cercando di restare nei solchi di quelle parole, di far passare tutto questo dal corpo e non solo dalla voce».
G.A.: «Generalmente è più facile che le cose sbrilluccicanti attirino di più l'attenzione all'inizio, poi però pian pianino...».
nr. 10 anno XV del 20 marzo 2010