NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Un Cyrano De Bergerac di… parola

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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popolizio

Cristiano muore e lui perde la possibilità di scrivere a Rossana. Senza Cristiano il suo amore viene represso al punto che lui non riesce più ad esprimersi, la vena lirica si disperde e gli rimane solo il ritmo. Cyrano sul piano psicologico ha queste grandi doti di spadaccino e poeta ma il difetto estetico forse lo emargina un po', per via delle convenzioni sociali. Come mai queste convenzioni, che sono stabilite dagli uomini, sono in realtà poi così punitive per l'animo umano e per l'espressione dei sentimenti?

«Non credo si parli di convenzioni. Quelle che ci sono, sono convenzioni teatrali. Come hai visto non abbiamo fatto un naso esagerato: io e Daniele Abbado, il regista, abbiamo pensato che il personaggio non fosse il naso perché siamo convinti che dietro al naso si nasconda una fragilità caratteriale che impedisce a Cyrano di rapportarsi realmente a una donna. Nessuna donna è impedita ad amare qualcuno perché ha un naso grande. Questo naso, per Cyrano, è un alibi dietro al quale lui si nasconde».

Un limite che si pone lui?

«Sicuramente. Per noi è anche una cosa molto infantile quando deve parlare della morte di Cristiano, il vero rapporto d'amore è con lui: tu pensa a un uomo che delega un altro per amare una donna. È come un sync: io metto le parole in bocca a Cristiano ma in realtà lui vede pochissimo Rossana. Dalla morte di Cristiano c'è un lutto che dura 14 anni e Cyrano dice che è finita e che non potrà più continuare questo amore "virtuale"».

Gli è "morta la bocca" diciamo.

«Esatto. Lui per 14 anni va in questo convento dove c'è Rossana e fa, come gli dice lei, il gazzettino della settimana. Chiude la versione lirica e diventa uno qualunque davanti a lei. L'iperbole del testo è che Rossana si accorge dell'amore di Cyrano per lei da un cambio di voce, da come lui ricorda la sua lettera a voce alta. Non c'è altro mezzo ed è un'iperbole che non è spiegabile se non attraverso i versi, un codice e una convenzione teatrale che lo rende credibile. Attraverso un codice psicologico non puoi renderlo vero: quello che succede in teatro in quel momento là, lo riesci a rendere vero attraverso i versi».

Lei ha doppiato attori di teatro inglesi anche in film tratti da opere teatrali. Che differenza c'è nel dare voce e recitare in situazioni di linguaggi diversi come film del tipo di "Eyes Wide Shut", l'"Hamlet" di Branagh, "Train de Vie" o una serie tv come "Lie to Me"?

«La differenza è che i protagonisti sono loro e quello che tu puoi fare molto umilmente è quello di avvicinarti al loro lavoro. Il doppiaggio è sempre una mistificazione, si dovrebbe vedere il film in originale. È vero che molte voci fanno parte del nostro immaginario uditivo. Quando lo devi fare però ci sono delle caratteristiche che sono difficili. L'Amleto mi è servito molto perché è stato una grandissima palestra: anche quello in versi, un adattamento fantastico di Francesco Vairano. Branagh va velocissimo, non lo capiscono nemmeno gli inglesi. Loro hanno una grande dinamica,il doppiaggio invece tende ad essere lineare. Tim Roth ha una dinamica impressionante. Per me è una grande palestra e nel contempo faccio una cosa che mi diverte».

Lei ha fatto letture di grandi romanzi per la radio. Oggi vanno di moda gli audiolibri. Il successo di queste iniziative è frutto anche di una spinta su una sorta di leva affettiva?

«Si, si, sicuramente. Dipende anche da chi le fa. A me piace molto ascoltarle e farle, a patto che non ci si compiaccia della voce: attraverso la voce bisogna farti vedere delle figure, dei paesaggi, crearti il panorama sonoro e farti rivivere i personaggi, sedurti e affabularti. Per farlo bisogna possedere quei mezzi e quelle esperienze. Oggi si tende a fare qualcosa di molto minimale. Ecco, io faccio parte di quelli che non buttano via manco una virgola».

nr. 11 anno XV del 27 marzo 2010

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