NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
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Alessandro Gassman, non solo l’attore

L’incontro in occasione dello spettacolo “Roman e il suo cucciolo”, l’occasione per parlare anche di Eti e dell’Olimpico

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Alessandro Gassman, non solo l’attore

Il 30 e 31 marzo e il 1° aprile al Comunale di Vicenza è stato presentato il dramma "Roman e il suo Cucciolo", diretto e interpretato da Alessandro Gassman. Adattamento di una pièce americana, tratta la tematica della droga e dell'emarginazione riportandola nella periferia di Roma. Un testo che forse rivela certi americanismi non privi di qualche cliché ma che analizza e mostra nel dettaglio una realtà insidiosa dalla quale nessuno di noi può ritenersi davvero al riparo. Abbiamo intervistato Alessandro Gassman, al quale abbiamo chiesto anche notizie sul futuro del premio ETI.

Questa pièce parla di una comunità rumena (portoricana, nella versione originale) e del problema della droga. Come mai, quando si tratta questo argomento, si preferisce rappresentare realtà socialmente degradate?

Alessandro Gassman: «Sono realtà molto presenti nella nostra società, uno dei problemi principali delle nostre periferie, soprattutto nelle grandi città. Poi i rumeni sono circa 900.000: ce n'è uno ogni 50 italiani. Credo sia importante parlarne. L'adattamento che abbiamo fatto con Eduardo Erba ci ha portati verso i rumeni perché avevano delle similitudini con la comunità portoricana della New York degli anni '80, anche per le connotazioni religiose di questa visione mistica di fede nella Madonna».

Di questa pièce colpisce molto l'identità di queste persone, sospese tra aspirazioni legittime e questo morbo che li attanaglia e condiziona la loro vita al punto quasi di sdoppiare la loro personalità, trattenendoli nel degrado. Un'altra cosa che colpisce è il personaggio di Che: artista colto e intelligentissimo, cosciente della sua miseria di tossicodipendente. In poche battute fotografa la situazione e fa capire che anche le persone più brillanti non sono immuni da queste cose.

«Assolutamente: Che è lo snodo di questo spettacolo. È colui che accende e riaccende una speranza nella testa di Cucciolo, che lo istruisce e lo allontana da un padre violento, rozzo e analfabeta».

Ma non è un riscatto perché è lui stesso a bucare Cucciolo.

«C'è tutto il meglio e il peggio dell'umanità dentro al Che. Mi interessava svilupparlo molto, perché volevo mostrare che in questa realtà stanno tutti sullo stesso livello: non è che il rumeno sta meglio del pugliese o del romano. Il colto e l'ignorante, il violento, la prostituta vittima del pappone e il pappone stesso che si scopre indifeso davanti a un evento così drammatico come la fine del nostro racconto. Il Che è un personaggio che mi piace molto».

Anche ne "La parola ai giurati" hai usato questo telo trasparente a separare la scena dalla platea, come se fosse una sorta di quarto muro simbolico che premette alla gente di intravedere ma non di vedere e capire completamente. Secondo te c'è sempre un muro che non permette di capire tra le persone e gli eventi?

«Questo è un muro che invece di allontanare avvicina, perché mi permette, con queste retroproiezioni, di visualizzare alcune visioni dei personaggi e di coinvolgere maggiormente il pubblico. Ci sono tanti filtri, tanti veli tra le persone e ce ne sono sempre di più: il fatto che le nuove generazioni si innamorino quasi solo via internet è sicuramente un velo che a mio parere, da 45enne, allontana le persone dalla realtà. Il quarto muro serve anche a noi attori per concentrarci di più quando siamo in scena. Una cosa che mi piace molto è non lavorare in maniera teatrale: non avere un attore in prima illuminato e che parla e gli altri in seconda. Ci si muove e può essere che chi parla è in ombra. Voglio lasciare il pubblico libero di seguire chi vuole in quel momento e non necessariamente chi è al centro dell'attenzione perché sta parlando».

Il tuo lavoro è molto orientato verso il teatro civile. Ci sono degli eventi che ti interessano e di cui vorresti parlare o dei personaggi controversi che vorresti interpretare magari legati a realtà meno conosciute?

«Si, oltre a "La parola ai giurati" e a questo, quando ero direttore artistico dello Stabile d'Abruzzo, abbiamo prodotto uno spettacolo che si chiamava "Le invisibili"e che parlava della violenza sulle donne, in quel caso pakistane, alle quali viene distrutta la faccia con l'acido. Sono tanti i drammi che il nostro paese vive: sto leggendo molti testi interessanti in questo periodo. Il mobbing per esempio è un argomento che mi piacerebbe trattare. È stato fatto al cinema ma non a teatro».

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