NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
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“I Parlanti Evanescenti” del dialetto, in un convegno a Sappada di Belluno

di Laura Campagnolo

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“I Parlanti Evanescenti” del dialetto, in un conve

Molto apprezzati, nel corso del convegno, anche i contributi di Stefano Bressan su Andrea Zanzotto, e di Giulia Brian su Luigi Meneghello, entrambi dell'Università di Padova. Il primo, con un discorso su Dialetto e paesaggio in A. Zanzotto, ha sottolineato l'importanza del paesaggio all'interno della poetica zanzottiana e della corrispondenza fra questo e l'espressione dialettale: «Per Zanzotto il dialetto è la voce del paesaggio nel quale i parlanti sono insediati, si mescola con i rumori e i suoni della natura, stabilendo un rapporto tra idioma e luogo che potremmo indicare con una vera e propria simbiosi». Il dialetto, secondo la visione del poeta, diventa così la chiave per entrare e per capire quel mondo che non c'è più: solo il dialetto permette di identificare precisamente una realtà come realtà di quel luogo particolare. «La "contrada" - ha puntualizzato Bressan - il poeta quasi non la riconosce e non vi si riconosce. Da povera s'è fatta ricca, ma si è disgregata, deteriorata, impregnata dei disvalori della modernità. L'equilibro precario sul quale si reggeva si è definitivamente infranto ed essa "piomba giù", stretta com'è tra malavita, "nuove" malattie e capannoni tra i quali il poeta stesso è soffocato».

Per quanto riguarda il concetto di dialetto, il giovane studioso di Zanzotto ha sottolineato come «il poeta, pur legatissimo alla sua parlata di cui si dichiara parlante fedele, non si pone su posizioni puristiche. Osserva infatti come le parlate locali "pur calate entro un'irreversibile deminutio" (soprattutto per il venir meno del mondo agricolo- artigianale con tutto il suo vocabolario riferito ad oggetti e ad atti oggi scomparsi), possiedano anche certe "indefinibili facoltà di adattamento" che ne potrebbero consentire la sopravvivenza». Chiudendo con un bilancio "ottimista", Bressan ha osservato: «La "non codificazione" di queste parlate consente una loro non traumatica ristrutturazione interna che permette di integrare nuove forme e costrutti indispensabili per adattarsi ad una realtà e a dei referenti mutati rispetto a quelli tradizionali».

Un altro intervento sugli autori contemporanei è stato quello di Giulia Brian, che ha cercato di approfondire il ruolo che Luigi Meneghello attribuiva al bambino e, più in generale, alla creatività linguistica dei discenti in relazione alla vitalità, alla freschezza di una lingua. Secondo lo scrittore infatti «era finché lo parlavano i piccoli, che nel dialetto c'era quella stupenda congruenza naturale tra come si sentiva e come si parlava; in un certo senso era impossibile dire cose false, se non di proposito».

La ricerca della giovane studente si è focalizzata sulla lingua dei Trapianti, penultima opera edita dell'autore, che raccoglie traduzioni in vicentino di celebri testi (poesie e drammi) inglesi. E proprio il titolo di questa pubblicazione spiega uno degli ultimi lavori di sintesi linguistica di Meneghello: «Questa passione linguistica per i discenti si traduce nei risvolti ludici che talora prende la scrittura meneghelliana: i trapianti stessi sono oggetto di svecchiamento linguistico, prova che essi non sono mere traduzioni, ma nuove creature letterarie e linguistiche. Le cosiddette parole di Mino (o neologismi) non sono parole esterne al dialetto, cioè non si collocano in uno spazio estraneo alla grammatica del vicentino, ma giocano con le potenzialità intrinseche del dialetto per rinnovarlo dall'interno. Con le regole del vicentino, Meneghello si diverte a comporre nuove parole, parole che sfumano nelle due varietà». La relazione di Giulia Brian ha concluso così la sua tesi su Luigi Meneghello e le parole di Mino: «La lingua dei Trapianti non è quindi il vicentino, ma un'espressione personale, intima, spontanea e insieme lungamente costruita che affonda le proprie radici nel humus della lingua materna».

 

nr. 27 anno XV del 17 luglio 2010

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