NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Dufresne: il metal hardcore made in Vicenza

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Dufresne

In qualsiasi campo dell'arte si pone sempre il problema dell'innovazione. Voi preferite fare ricerca sulle origini e sui classici oppure ci sono delle avanguardie dalle quali attingete?

«Io penso che il rock sia qualcosa di legato al futuro. Fare revival non è quello che il rock ti vorrebbe portare a fare. Non va neanche bene chiudersi in una sala e cercare le novità, perché molto spesso questi gruppi sono inconcludenti, si chiudono in una sorta di limbo alla ricerca di chissà che cosa. Per una band è molto più importante farsi l'esperienza sul palco e il rapporto con la gente».

Per voi è più interessante l'America o l'Europa?

«Senza dubbio l'Europa: ha davvero delle influenze molto particolari e scoprirle è qualcosa che ti arricchisce. I gruppi metal francesi e tedeschi hanno una loro identità. Quello che arriva da oltreoceano diventa un po' meno interessante: c'è comunque qualità perché i gruppi di punta sono in maggior parte americani, poi però si creano una serie di cloni che portano alla noia».

Questa sera ti sei buttato in mezzo alla gente che cantava con te, hai offerto il microfono. Questo rapporto così intimo con il pubblico crea un legame fortissimo. Per alcuni artisti, questo tipo di rapporto risulta difficilmente gestibile. Quanto è importante riuscire a mantenerlo?

«È essenziale, per come vedo io il concerto e come sento la musica. Noi siamo partiti 6 anni fa da Vicenza, con la voglia di suonare e non molte aspettative. Siamo stati un po' dappertutto e la cosa che abbiamo sempre cercato è il contatto con la gente. Pensiamo che ci sia bisogno di contatto e di comunicazione di cose vere. Per quanto internet sia un enorme aiuto a livello di promozione e a trovare nuovi amici, poi bisogna fare il passo successivo, andare là e conoscere e vivere veramente le cose. Siamo stati in Russia e Ukraina recentemente, siamo andati lì senza alcuna aspettativa, abbiamo fatto 7000 km in 15 giorni, guidato anche per 22 ore di seguito: finito il concerto dovevamo ripartire subito per un'altra città, magari senza potersi fare una doccia, senza il confort di un albergo, dormendo nel furgone. Poi scatta qualcosa e smetti di lamentarti, inizi a vivere sul serio, a capire quella cultura, quello che hanno passato e quando te ne accorgi, ti senti felice. È una cosa che ti spiazza ma che ti porti dentro. Rivaluti tutte quelle persone che dall'estero vengono a lavorare in Italia, perché abbiamo vissuto come loro: mostrare i passaporti, essere continuamente sottoposti a controlli, non capire assolutamente niente di quello che ti circonda. Ci vogliono molto coraggio e orgoglio. Dal punto di vista artistico era un periodo di stallo: stavamo preparando il disco nuovo, il tastierista era stato 6 mesi in Nuova Zelanda perché lavorava al film "Avatar", lui fa il grafico. Avevamo bisogno di andare in un posto dove non siamo conosciuti e il tour in Russia è stato un modo per riordinare le idee, ricaricarci e ritrovare un dialogo tra noi e ritornare qui».

Ci sono altri generi che vi ispirano? Moltissime persone dicono che più ascoltano metal più amano la classica, come mai?

«Il metal è una musica molto tecnica, inquadrata, è una disciplina, come la classica: ha dei canoni e delle cose prestabilite, ha i suoi mostri sacri che devi conoscere, una sua storia. Ci definiscono post hardcore, non mi disturbano più di tanto queste etichette. Oggi i confini sono molto labili perché ci sono molte contaminazioni. Noi ascoltiamo molto hip hop anche italiano, perché porsi un limite? La musica secondo me è la cosa più democratica che ci sia: il confine lo definisci tu in base ai tuoi gusti».

 

nr. 28 anno XV del 24 luglio 2010

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