Nell'ultimo libro di Tomaso Franco "Il respiro dell'erba" (Il Bisonte) si sente un Franco nuovo, spaesato, straniato, lacerato, deluso, solitario, deserto, un Franco di fronte al mistero e all'angoscia della vita, un poeta che in quasi ogni lirica ripete una sola parola: "morte". Leggiamo la lirica forse più alta e scoscesa di tutta la sua poesia "Verso la fine, delusioni": «Mia madre: sepolta. Mio padre / da molto. Lo sarò presto anch'io, / due? Dieci anni, è lo stesso. Forse / ho concluso tutto quanto riservato / dal Destino, dalla luce e dalle notti / incomprese. Persino, / seduto su una vecchia panchina / ho atteso il tuo ritorno. / Avevo scelto e portato molte poesie / che dicevi di voler ascoltare / dalla mia scarsa voce. / Preparavo la dizione per te, amore. / I boschi ingiallivano, la prima neve / mi imbiancava. Avevo portato briciole / per gli uccellini già invernali. / Stavo lì, in attesa». Un grande poeta l'ultimo Franco, che ogni tanto si fa vivo con i suoi modesti e puliti, senza figure e senza orpelli, preziosi e non appariscenti libriccini, parchi e solitari, che rivelano «un mondo ermetico di luce eccentrica e straniante - come ha scritto Roberto Carifi- sulla realtà quotidiana, in un costante rovesciamento delle misure consuete che registra una sorta di stonatura al tempo stesso reale e metafisica, un'atmosfera magica di malinconia e di struggimento, in cui le parole, che sono sempre altrove, come trasportate dal vento, si posano sul limitare della vita e nuovamente scompaiono in un rimpianto segreto che sa che non esiste nessuna creazione, nessuna forma d'arte separata dalla caducità del mondo».
In perenne viaggio
Questo poeta, così affascinato dalla realtà e dalle sue frontiere in perenne viaggio alla ricerca di se stesso, è afferrato ogni tanto da un desiderio di bianco, di deserto, di vuoto, di una cella spoglia, di un segno meno apposto alle cose, di silenzio, come nella lirica "Piccolo finale": «C'è un respiro sereno / sull'albero mosso d'aria, / il respiro anche dell'erba, / di mille esistenze che possono emettere / uno splendore». C'è sempre nella poesia di Franco un posto romito, una "Abbazia di Leme", «nascosta nella macchia / un'antica abbazia con ruderi, / mura e la chiesetta gotica, / lorda ma sana», oppure una "piccola cucina di montagna", su cui salire e contemplare la propria storia e la propria desolazione interiore, una scrittura notturna dove far parlare i fantasmi della notte, il male, i deliri, la follia e la devastazione di un mondo in sfacelo e in via di dissoluzione, come nella lirica "Il gene del corpo": «Non siamo pronti allo spettacolo / di quanto c'è in noi. Chi siamo? / È un viaggio che può cominciare / dentro di noi. E non tutto / ciò che osserveremo / sarà piacevole. / Scienziati ci dicono che il lutto / è naturale frutto dei geni / di cancro, infarto, depressione / invecchiamento ed altri mali. / Perché dunque portano al lutto / anche i geni dell'amore, / della felicità...».
Il male massimo
Così ne "Il male massimo": «È come se tu ascoltassi / e vedessi quelle morti / una dopo l'altra senza / sapere come avvengono / mai sapendo che soffri, / attingendo il male massimo / tra le mani di un misterioso / solitario vivente, tu, perché / non moristi? C'è un altro che / corre lontano e si allontana / verso una nebbia, morte di guerra, / morte da casi macchinali. / Ti attenderà, tutti quei morti / ti attenderanno nella mente / di Dio, senza collera, e / stranamente dolce quel sinistro / ultimo soffio».
Qui il poeta affonda in quella scrittura tentacolare, nutrita di spettrali ombre e di oscuri presagi, scende negli inferi della propria anima e li attraversa, senza velarli o censurarli, senza abbellirli, sapendo bene che il compito della poesia è quello di guardare in faccia la Medusa, dalla testa attorcigliata di serpenti: «C'è l'odore strano di fiori / marcescenti? Accumulati freschi / con amore sulla carcassa del cane. / Seguiva, capiva, aiutava, / era un fedele segretario. / Passo. È sepolto di fiori putridi, / ma proseguo. Un giorno / tutto sarà terra».