NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
google
  • Newsletter Iscriviti!
 
 

Nell’ultima opera di Tomaso Franco il dolore, la morte e la speranza

“Il respiro dell’erba”, presenta una nuova poesia rispetto alle precedenti liriche dell’autore: di fronte al mistero e all’angoscia della vita, un’atmosfera magica di malinconia e di struggimento sui rimpianti che la vita presenta

di Gianni Giolo
giolo.giovanni@tiscali.it

facebookStampa la pagina invia la pagina

TOMASO FRANCO

Nell'ultimo libro di Tomaso Franco "Il respiro dell'erba" (Il Bisonte) si sente un Franco nuovo, spaesato, straniato, lacerato, deluso, solitario, deserto, un Franco di fronte al mistero e all'angoscia della vita, un poeta che in quasi ogni lirica ripete una sola parola: "morte". Leggiamo la lirica forse più alta e scoscesa di tutta la sua poesia "Verso la fine, delusioni": «Mia madre: sepolta. Mio padre / da molto. Lo sarò presto anch'io, / due? Dieci anni, è lo stesso. Forse / ho concluso tutto quanto riservato / dal Destino, dalla luce e dalle notti / incomprese. Persino, / seduto su una vecchia panchina / ho atteso il tuo ritorno. / Avevo scelto e portato molte poesie / che dicevi di voler ascoltare / dalla mia scarsa voce. / Preparavo la dizione per te, amore. / I boschi ingiallivano, la prima neve / mi imbiancava. Avevo portato briciole / per gli uccellini già invernali. / Stavo lì, in attesa». Un grande poeta l'ultimo Franco, che ogni tanto si fa vivo con i suoi modesti e puliti, senza figure e senza orpelli, preziosi e non appariscenti libriccini, parchi e solitari, che rivelano «un mondo ermetico di luce eccentrica e straniante - come ha scritto Roberto Carifi- sulla realtà quotidiana, in un costante rovesciamento delle misure consuete che registra una sorta di stonatura al tempo stesso reale e metafisica, un'atmosfera magica di malinconia e di struggimento, in cui le parole, che sono sempre altrove, come trasportate dal vento, si posano sul limitare della vita e nuovamente scompaiono in un rimpianto segreto che sa che non esiste nessuna creazione, nessuna forma d'arte separata dalla caducità del mondo».

 

In perenne viaggio

Questo poeta, così affascinato dalla realtà e dalle sue frontiere in perenne viaggio alla ricerca di se stesso, è afferrato ogni tanto da un desiderio di bianco, di deserto, di vuoto, di una cella spoglia, di un segno meno apposto alle cose, di silenzio, come nella lirica "Piccolo finale": «C'è un respiro sereno / sull'albero mosso d'aria, / il respiro anche dell'erba, / di mille esistenze che possono emettere / uno splendore». C'è sempre nella poesia di Franco un posto romito, una "Abbazia di Leme", «nascosta nella macchia / un'antica abbazia con ruderi, / mura e la chiesetta gotica, / lorda ma sana», oppure una "piccola cucina di montagna", su cui salire e contemplare la propria storia e la propria desolazione interiore, una scrittura notturna dove far parlare i fantasmi della notte, il male, i deliri, la follia e la devastazione di un mondo in sfacelo e in via di dissoluzione, come nella lirica "Il gene del corpo": «Non siamo pronti allo spettacolo / di quanto c'è in noi. Chi siamo? / È un viaggio che può cominciare / dentro di noi. E non tutto / ciò che osserveremo / sarà piacevole. / Scienziati ci dicono che il lutto / è naturale frutto dei geni / di cancro, infarto, depressione / invecchiamento ed altri mali. / Perché dunque portano al lutto / anche i geni dell'amore, / della felicità...».

 

Il male massimo

Così ne "Il male massimo": «È come se tu ascoltassi / e vedessi quelle morti / una dopo l'altra senza / sapere come avvengono / mai sapendo che soffri, / attingendo il male massimo / tra le mani di un misterioso / solitario vivente, tu, perché / non moristi? C'è un altro che / corre lontano e si allontana / verso una nebbia, morte di guerra, / morte da casi macchinali. / Ti attenderà, tutti quei morti / ti attenderanno nella mente / di Dio, senza collera, e / stranamente dolce quel sinistro / ultimo soffio».

Qui il poeta affonda in quella scrittura tentacolare, nutrita di spettrali ombre e di oscuri presagi, scende negli inferi della propria anima e li attraversa, senza velarli o censurarli, senza abbellirli, sapendo bene che il compito della poesia è quello di guardare in faccia la Medusa, dalla testa attorcigliata di serpenti: «C'è l'odore strano di fiori / marcescenti? Accumulati freschi / con amore sulla carcassa del cane. / Seguiva, capiva, aiutava, / era un fedele segretario. / Passo. È sepolto di fiori putridi, / ma proseguo. Un giorno / tutto sarà terra».

continua »

Come installare l'app
nel tuo smartphone
o tablet

Guarda il video per
Android    Apple® IOS®
- P.I. 01261960247
Engineered SITEngine by Telemar