Quest'opera è rimasta a lungo in un cassetto, la pubblicazione è arrivata solo nel 2009. Da dove è partita la volontà di dar vita al suo lavoro?
«A quell'epoca avevo già un contratto con l'Erbavoglio, una casa editrice che lavorava per pubblicazioni molto particolari, diretta da uno dei grandi maestri della psicologia italiana, Elvio Facchinelli, a cui il libro era piaciuto molto. Purtroppo però la casa editrice chiuse e il libro non venne pubblicato. Cercai di mandarlo a qualche altra casa, ma il libro non ebbe fortuna. Con gli anni poi ho intrapreso un'altra strada, dimenticandomi del libro. Al tempo scrivevo con una Olivetti 22, e il libro era stato battuto a macchina. Quattro anni fa, mi venne in mente di riprendere in mano quello che avevo scritto e di passarlo dalla carta al computer, facendo da editor di me stesso, senza cambiare nulla. Trovai Tullio Pironti, ex pugile, a cui mandai il libro: l'editor apprezzò molto il mio lavoro. Non mi interessavano i grandi numeri, volevo solo vedere in che modo questo libretto poteva diventare un oggetto commerciale».
E lo diventò?
«Quasi. Circa due anni e mezzo fa ho lavorato ad un progetto jeans con Oviesse, per lanciare assieme alla linea di jeans un libretto premium in omaggio che parlava degli anni '70. La proposta era stata accolta con entusiasmo, si trattava di una pubblicazione di 30 mila copie. Sfortuna volle che anche questo progetto fosse ridimensionato. Mi ritrovai di nuovo il libro in mano senza sapere cosa farne, fino a quando incontrai Tullio Pironti che accettò di stamparlo».
Il suo libro sorprende per l'impostazione grafica ed editoriale che rievoca la moda degli anni '70 con scarabocchi, variazioni di caratteri grafici, pagine che ricalcano i volantini in ciclostile.
«L'idea iniziale era quella di fare in modo che il libro sembrasse ancora più "moleskine", un'agendina con la copertina di plastica. L'idea mi era venuta leggendo tutto quello che girava attorno alla beat generation. Uno dei miei più autori preferiti, infatti, era Allen Ginsberg che usava indossare - si diceva - un paio di Levi's di camoscio e tenere un liberculo nella tasca destra di questi jeans dove annotava i suoi appunti. Lo stile del mio libro rispecchia quello di Ginsberg. La grafica segue volutamente lo stile degli anni '70, dai font alle immagini, dalle pagine scritte a colori che sfumano e che rievocano le stampe a polvere, alla logica dei volantini che si vedevano all'università. Qualcosa è scritto anche in tipewriter in onore dell'Olivetti 22».
Un formato del genere, secondo lei, è stato apprezzato dai lettori?
«Non saprei. In libreria si segue una logica di posizionamento sugli scaffali. Tante volte se un libro non viene pubblicizzato prima e se lo scrittore non è conosciuto, non si riesce a vendere. Chi vede scritto Guido Costello non trova un riferimento preciso. Tuttavia, se il libro fosse diventato un oggetto commerciale, pubblicato in 30 mila copie e fatto entrare nelle tasche dei jeans, mi avrebbe fatto senz'altro piacere».
L'ambientazione della vicenda avviene a Vicenza, città che viene definita «piccola e stretta, imprendibile e indifferente». In quali altri modi i due protagonisti sentono la loro città?
«Il libro è scritto da un vicentino che vive a Vicenza e si colloca tra la provincia e la città. Si parla soprattutto della Vicenza del centro storico: i Carmini, Piazza dei Signori, Ponte Furo e Porton del Luzo. È la Vicenza bellissima in cui vivo ancora oggi, una delle città più belle al mondo, una città che negli anni ‘70 soffriva adagiata nel suo "provincialismo", che risentì di qualche scossa di carattere geopolitico, anche dolorosa, ma che ha sempre mantenuto la sua veste provinciale. Per i protagonisti del libro, Antonio, Caproni e Angela, la propria città rimane un luogo: essi potrebbero essere di Bologna, piuttosto che di Milano, non cambierebbe nulla. Il libro prosegue spostandosi fra Vicenza e Bassano. Di mezzo c'è la naja che al tempo era un'esperienza davvero dura e faticosa, che portava via un anno di vita mentre si era giovani, un ostacolo che ora non c'è più. Nel libro c'è, insomma, tutto il mondo di allora, dagli scontri studenteschi alle lotte armate. Lo scrittore guardava il mondo in maniera laterale e personale, viveva tutto sulla propria pelle, ma senza credere o lasciarsi coinvolgere troppo, mantenendo lo sguardo di chi sapeva che c'era la lotta di classe, ma il rock' n roll era più importante. Non emerge comunque nessun senso di condanna, né alcun bisogno di approvazione: c'è solamente un vivere le cose senza esserci completamente dentro».