NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Raccolta di poesie, ma anche di filosofie in “Petali di parole“ della scrittrice Ma Sharda

Dopo un’infanzia passata con i nonni in un paesino del Friuli dove il contatto con la natura e con valori antichi l’ha portata alla lirica, un testo in cui regna la meditazione

di Laura Campagnolo

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Raccolta di poesie, ma anche di filosofie in “Peta

Un'infanzia passata con i nonni in un paesino del Friuli, Sequals; il contatto con la natura e con i valori antichi. A cinque anni il distacco da quel mondo di tradizioni popolari e la scoperta di una società che non conosceva quei principi. Come non tradire e non perdere neanche un granello di quella vita passata? Questa la maturazione di Ma Sharda (nome meditativo), scrittrice vicentina che rifiuta l'etichetta di poeta. A trentadue anni approda ad un'esperienza che cambierà la sua vita: l'incontro con la meditazione. «Fu proprio questo percorso interiore alla base della mia poesia. Ho solo cercato di riportare qualche sapore e profumo di quello per cui solo vale la pena di vivere». Una raccolta di poesie lievi, il cui stile mantiene le distanze da frasi troppo costruite e artificiosamente letterarie. Una giovanile freschezza e una docile spontaneità fanno dell'opera di Ma Sharda un «tesoro di spirituale saggezza».

"Petali di parole" è il titolo della sua agile raccolta di poesie. Cosa rappresentano per lei i fiori?

«Queste poesie sono parole e petali, frammenti di fiori. Ho sempre sentito i fiori come la bellezza più semplice con cui l'uomo viene a contatto. I fiori sono quanto di più soave la natura ci offre ogni giorno: fragili come la nostra vita, e allo stesso tempo perenni, perché la vita si rinnova sempre».

Parliamo di valori, soprattutto di quelli che l'hanno fatta crescere. Quali di questi valori si respirano nelle sue poesie?

«Sono cresciuta con i miei nonni, in un ambiente di vecchi. A cinque anni, di colpo mi ritrovai a scuola con altri bambini, in un mondo dove si percepivano diversi aspetti culturali. Da una parte, rimaneva il paese con il suo modo di vivere chiuso e una precisa identità culturale, dall'altra sorgeva la città, una dimensione nuova che andava verso lo sviluppo industriale».

Quali, dunque, i sapori per cui vale la pena vivere?

«Sono gli aspetti del nostro vivere quotidiano. Ad esempio il silenzio, che non possiamo definire. È qualcosa che suona, ma che non fa rumore. Sono oscurità e luce, il vuoto e il tutto».

In che modo riesce a trasmettere questi concetti?

«A volte si avverte una mancanza espressiva nella nostra lingua italiana, basti pensare alla frase: "Sei troppo poco vestito". Nasce proprio qui il limite, la difficoltà sta nella dualità. Dovremmo sviluppare piuttosto concetti e idee in cui gli opposti anziché annullarsi, si compenetrano. Si dovrebbe sviluppare un modo diverso di concepire la realtà. Gli spunti per una maturazione esistono già, ma sono molto pochi».

Quei valori, per lei, esistono ancora?

«Ho dovuto difendere il mondo ormai lontano delle mie radici. I ritmi della città sono completamente diversi. Con i miei nonni invece erano più naturali, come ancora avviene nell'ambiente agricolo. Gli anziani erano considerati un esempio di esperienza e di saggezza, li si trattava con rispetto. Esisteva una percezione della vita molto più naturale e la morte era accettata con serenità, non nascosta. Ricordo che da bambina, mi accompagnarono ad una veglia funebre. La morte era parte della vita, vicina ad essa. Questa dignità che si ritrova in alcune poesie rispecchia il mio modo di vivere di allora, la spontaneità. La stessa povertà era dignitosa, ma non solo a parole. Certo, un povero non si inorgogliva della sua condizione, ma nemmeno la taceva forzatamente».

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