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Come dice l'Ecclesiaste, c'è chi semina e c'è chi raccoglie, ma sarebbe ingiusto affermare che gli attuali reggitori del Cisa hanno raccolto la messe seminata da Cevese tanti anni fa. Essi hanno soltanto ripreso e portato avanti, fino alla soluzione di questi giorni, una formidabile intuizione che fu di Renato Cevese negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando capì che la valorizzazione di Andrea Palladio insieme con la salvazione delle ville venete doveva allargarsi a comprendere la grande eredità palladiana nel mondo, e fondò quel suo Centro di studi di architettura che non per niente fin dalle origini porta nella sigla l'aggettivo "internazionale". Fu una grande invenzione, quel Centro, anche se, rispetto alle centrali della cultura ufficiale italiana, fu periferico, appunto a Vicenza, e tutti ricordiamo la lieta meraviglia non soltanto a Vicenza nel vedere, nei primi anni Cinquanta, schiere di studiosi e studenti statunitensi negli stages ospitati a Villa Cordellina Lombardi di Montecchio, quasi un augurio per una alta scuola di architettura, davvero a livello internazionale, che Vicenza avrebbe potuto e forse dovuto degnamente ospitare. Era il momento in cui Palladio, nume indigeno in un cielo ristretto tra le ultime propaggini venete delle Alpi e i colli vulcanici Berici ed Euganei, poteva rifulgere in un firmamento mondiale, che vedeva gli esiti del Palladianesimo affermarsi negli Stati Uniti e in Russia, in Sudafrica e in Inghilterra e Polonia. In sostanza, non se ne fece niente, e anche il Centro internazionale rimase un selezionato ed eletto gruppo di addetti ai lavori, che più o meno una volta all'anno celebrava solennemente i suoi riti un po' esoterici, almeno nell'accezione corrente di chi, soprattutto tra i politici di casa e fuori, continuava a considerare l'architettura come un vezzo solitario di impresari edilizi ammalati di grandeur.