NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Conferenza sul dialetto come lingua della poesia e della vita degli umili

di Gianni Giolo
giovanni.giolo@tiscali.it

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Conferenza sul dialetto come lingua della poesia e

"El gobo" di Barbarani

Nelle sue composizioni c'è una grande umanità che si rispecchia in deliziose e ironiche rappresentazioni popolari, come quando descrive "el gobo" che vende cerini all'angolo della strada dileggiato con inconsapevole crudeltà dai bambini. Il critico d'arte Ennio Gioanola afferma che nel ‘900 due sembrano le posizioni della poesia dialettale: quella espressionistica, in cui il dialetto funziona come elemento dirompente rispetto alla lingua d'uso, dando spazio a insofferenze, ribellioni, urla di furore, e quella platonica, in cui il dialetto è una specie di lingua degli angeli molto filtrata, fatta per esprimere ciò che in lingua suonerebbe retorico e superato, che diventa custode dell'intimità familiare e del nostro pudore più profondo. Fra i grandi poeti del ‘900 spicca Giacomo Cà Zorzi, detto Noventa, che è un poeta che tende a sollevarsi dalle esperienze quotidiane al giudizio morale, alla denuncia civile, senza trascurare l'accento delicatamente sentimentale pronto all'azione discorsiva, che non esclude nessuno dalla comprensione in funzione antiermetica, poesia che amava le forme preziose, oscure e difficili. Noventa si chiede: «Perché scrivo in dialetto?», e risponde: «Dante e Petrarca e quel dai Diese Giorni / gà pur scrito in toscan. / Seguo l'esempio».


La Noro e Bandini

Noventa voleva ispirarsi a Dante, Petrarca, Boccaccio e per lui il dialetto non era un localismo periferico, ma una lingua universale che deve essere compresa da tutti. Fra i poeti "espressionistici" va collocata la vicentina Nerina Noro, nella quale notiamo accenti di passioni, scatti di ribellione, secondo la poetica dell'anti-idillio che distingue nettamente le sue composizioni come «Go fato /'na considerasion: / tuti garia / qualchedun da copare. / Se no ghe fusse / la leie che te condana, / te sentirissi sbarare / da la matina a la sera. / Mi, par primo. / ‘Ndaria a spasso / col mitra». Fra i poeti "platonici" Fernando Bandini che attinge dal passato molte figure care ed anche se stesso. Come dice Giorgio Faggin il mondo espresso dal dialetto e la propria fanciullezza sepolta sono una cosa sola per lui: «No volevo scapare, / no volevo molarte, / mondo de corse, mondo / de viole e de pan-cuco. / Magnavo questo e quele. / Dolsi le viole, l'altro / un pocheto pì agrin. / Me resta in boca i giorni: / un sole che se insogna de aquiloni, / un vento che fa festa / soto le còtole de le putele. / E l'anema la resta / incateià a la rete de la corte / co la roèia de le campanele».

In questa carrellata a volo d'uccello sulla poesia veneta si è potuto notare come il dialetto riesca ad esprimere, con l'intimità istintiva del linguaggio familiare, eventi ed emozioni che in lingua risulterebbero retorici e poco credibili. E questo perché il dialetto è sempre la lingua della natura e della madre, come canta Zorzi: «El dialetto xe come el pan de casa, / la lingua come el pan de pistoria; / xe quindi natural che più me piasa / el primo co de far tento poesia».

nr. 47 anno XV del 25 dicembre 2010

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