Lorenza Farina, bibliotecaria a Vicenza, ha pubblicato una ventina di racconti per l'infanzia ottenendo numerosi riconoscimenti letterari. Farina, come si può parlare oggi dell'olocausto ai bambini? Quali parole si devono usare per far loro comprendere questa grande tragedia, senza intaccare la loro fiducia negli esseri umani?
«Forse il linguaggio della narrazione è quello più appropriato, una narrazione dove i fatti siano visti appunto dagli occhi di un bambino che ancora non sa spiegarli: sente che qualcosa di terribile incombe, ma non sa cosa sia. Ci sono due viaggi nel racconto: uno è quello che compie la bimba ebrea. È un percorso senza ritorno su un treno sorvegliato da uomini che non sanno vedere ciò che stanno facendo. La bimba ha ancora vicino a sé la mamma che la protegge e la consola e quel gruppo quasi invisibile di infelici che dividono con lei il pochissimo che hanno. Chiusa nel ventre del treno, che assume nell'incubo l'aspetto dell'eterno mostro che tutto inghiotte, ogni tanto viene alzata verso una minuscola feritoia dalla quale può prendere una boccata d'aria e vedere uno spicchio di cielo azzurro. La piccola va incontro al proprio destino ignara di ciò che l'aspetta, con la sapienza e la grazia proprie dell'innocenza. L'altro viaggio è quello compiuto dal bambino il cui sguardo incontra quello della piccola ebrea sul treno. È il viaggio verso la consapevolezza, verso la comprensione che c'è qualcosa di cattivo nel mondo, qualcosa che ha infranto perfino la speranza. I due sguardi si incontrano in un paesaggio bellissimo, in una giornata che potrebbe essere perfetta per giocare in mezzo ai campi, per rotolare fra l'erba e ridere a crepapelle. Ma qualcuno ha rubato l'infanzia a tutti e due oscurando il sole nel cielo e la gioia nell'anima. C'è una frattura nel racconto che simboleggia lo spezzarsi dei cuori, lo squarcio spaventoso di un arco temporale fra il prima e il dopo. Una frattura non ancora ricomposta, se dobbiamo ricordare tutto ciò e farlo ricordare ai bambini, perché non accada mai più».
Il libro, presentato nell'Areopago del centro culturale San Paolo di Vicenza con le letture coinvolgenti di Franca Grimaldi e l'accompagnamento alla chitarra di Riccardo Bertuzzi, avvince ed emoziona grandi e piccoli, anche per la bellezza delle immagini di Manuela Simoncelli, formatasi artisticamente a Bologna e a Firenze e illustratrice di libri e giochi per l'infanzia. Simoncelli, quanto contano le immagini per raccontare una storia come questa?
«L'illustrazione è una storia parallela al racconto, una sorta di storia nella storia. A volte ciò che nel testo non è detto, affiora attraverso l'immagine, le sue forme e i suoi colori. All'inizio, quando Lorenza mi chiese di illustrare il suo libro ero perplessa, non sapevo come fare, da cosa partire. Poi ebbi l'intuizione della farfalla e da lì si sviluppò tutto il lavoro successivo. La farfalla, che non viene mai nominata nel testo, ma che compare nei miei disegni, ha una valenza, un significato molto importante. Appoggiata sul filo spinato nell'immagine di copertina, la farfalla simboleggia tutto ciò che nei lager veniva brutalmente negato: la speranza, la libertà, la leggerezza, la vita».