NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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“Una vita da falsario”: dall’editore Colla un originale contributo alla memoria

di Mario Bagnara
mario.bagnara@fastwebnet.it

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“Una vita da falsario”: dall’editore Colla<BR>
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Falsario volontario per quasi tutte le organizzazioni della resistenza mondiale

Simili abilità tecniche e soprattutto la capacità di operare senza mai farsi scoprire dalle forze di polizia, nemmeno durante i frequenti spostamenti dei suoi laboratori, protetto solo dalla sua strategia della prudenza e della diffidenza, lo rendono "segretamente" famoso presso le organizzazioni di resistenza in vari paesi del mondo. Dopo le precedenti esperienze della Resistenza francese, della Haganah ebraica, impegnata nel trasferimento degli ebrei in Palestina, allora territorio britannico, fino alla creazione dello stato di Israele secondo la risoluzione dell'ONU del 14 maggio 1948, e quindi nella lotta per l'indipendenza algerina anche per risparmiare le inutili vittime dei richiamati francesi, nel 1967 erano ben 15 i paesi per la cui libertà egli collaborava come "falsario" volontario; ma «Non era ancora niente - confessa nel suo racconto/intervista alla figlia - in confronto a quel che sarebbe accaduto negli anni successivi, fino al 1971». Ma con la significativa esclusione di ogni forma di terrorismo, di guerriglia urbana e di banditismo, da lui, pacifista, condannati sempre fermamente.

Molto chiara e attuale la testimonianza finale: «La mia vita di falsario è stata una lunga e ininterrotta resistenza, perché, dopo il nazismo, ho continuato a resistere alle disuguaglianze, alla segregazione, al razzismo, alle ingiustizie, al fascismo e alle dittature. Nel 1944, io avevo capito che la libertà poteva essere ottenuta anche con la determinazione e il coraggio di un pugno di uomini. Quanto all'illegalità, purché non violasse l'onore o i valori dell'uomo, era uno strumento serio ed efficace di cui servirsi. A modo mio, e con le uniche armi di cui disponevo - conoscenze tecniche, ingegnosità e incrollabili utopie - per quasi trent'anni ho combattuto una realtà troppo dolorosa perché si potesse subirla... nella convinzione di avere il potere di modificare il corso delle cose, che un mondo migliore restava ancora da inventare, e che potevo dare il mio contributo. Un mondo in cui più nessuno avesse bisogno di un falsario. Lo sogno ancora».

La vita affettiva

Una simile esistenza, condannata alla clandestinità, ben difficilmente poteva conciliarsi con la vita sentimentale. E probabilmente, insieme con la consapevolezza di essere ormai "bruciato", è stata questa una delle principali motivazioni che lo convinse ad abbandonare il campo di un'attività sempre più pericolosa.

Adolfo comunque, anche se questo aspetto emerge solo a metà del suo racconto, non è mai stato insensibile al fascino femminile, colto nella bellezza e nella sensibilità culturale e artistica di numerose compagne: da Jeannine, un'ebrea polacca «giovane e graziosa» che sposa nel 1948 e dalla quale ha i primi due figli (Marthe e Serge), per separarsene dopo soli due anni, senza però mai dimenticare questa sua prima famiglia, Colette, come lui appassionata di fotografia, con la quale compie dei viaggi in Algeria nel 1953 e 1954, prima del rivoluzione dell'1 novembre 1954, Sarah, una negra americana che, dopo un'avvincente esperienza di vita bohémienne e di impegni fotografici lungo le coste dell'Europa settentrionale, lo anticipa negli USA, senza essere poi mai raggiunta, Annette, «Bella bionda, snella ed elegante», impegnata per l'indipendenza dell'Algeria, Marie-Aline, la ragazza delle pulizie, «Allegra, simpatica, e senza peli sulla lingua», Jeannette che morirà in Guatemala, sparandosi un colpo di pistola in bocca davanti alla polizia che bussa alla sua porta, Katia che, pittrice surrealista amica di Man Ray e di André Breton, con il venir meno dell'impegno algerino, soffre della «depressione dell'ex combattente», Lia che Adolfo pure ricorda con affettuosa nostalgia, confessando però di non essere mai riuscito a conciliare «attività clandestina con vita sentimentale, salvo quando anche le mie compagne erano coinvolte nel réseau», Evelyne, pure compagna di viaggi in Algeria, e infine la citata Leila, «figlia di un imam progressista», che, oltre ad essere «infinitamente bella... molto colta», interessava all'arte contemporanea e «alla fotografia ...Fu l'arte ad unirci». Il conseguente matrimonio porta alla nascita di tre figli, Atahualpa, José e quindi, 1979, Sarah, così chiamata forse in ricordo dell'americana che l'aveva aspettato negli USA. La nuova famiglia lascia l'Algeria nel 1982 e ritorna in Francia «con un visto turistico di tre mesi, senza lavoro e la speranza che le cose si sistemassero in fretta». La naturalizzazione francese sarà una conquista di dieci anni dopo, nel 1992. E a 67 anni Adolfo che nel frattempo ha ripreso la sua attività di fotografo, trova ancora l'orgoglio di dichiarare ai suoi giovani figli: «Ero un giovane padre! Anche se non avevo potuto offrirvi un mondo migliore, vi ho visti crescere, con la speranza di essere riuscito a trasmettervi i valori per i quali mi ero sempre battuto. Oggi ne sono sicuro».

 

nr. 05 anno XVI del 12 febbraio 2011

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