È cominciato con un grande successo di pubblico e di critica alla Libreria Galla l'esordio non solo nazionale ma addirittura internazionale con la vendita dei diritti inglesi e un'intervista a "Vanity Fair" della scrittrice vicentina Mariapia Veladiano, famiglia di scrittori (il fratello Nico ha già pubblicato due romanzi e la sorella Maurizia, insegnante allo Scotton di Marostica, è la penna più sottile e raffinata del Giornale di Vicenza), vincitrice del premio Calvino 2010. La presentazione alla Galleria Galla di Giulio Mozzi (il critico della Einaudi che ha lanciato un altro vicentino ben diverso dalla Veladiano Vitaliano Trevisan) è stata preceduta da due recensioni prestigiose: di Natalia Aspesi su Repubblica e di Ferdinando Camon su La Stampa. Non poteva andare meglio per l'esordiente cinquantenne vicentina («un'eccezione, una felice eccezione - ha detto Mozzi - perché le case editrici non lanciano autori nuovi che abbiano superato i quarant'anni») che vive a Bressanvido, si è laureata in filosofia e teologia, insegna al Remondini di Bassano, collabora con "Il Regno" (la rivista conciliare che mantiene un dialogo ecumenico con ogni cultura e religione). Il libro della Veladiano, che all'inizio si intitolava "Memorie mancate", e che giustamente è stato mutato, per consiglio di Valeria Parrella, in "La vita accanto" (Einaudi, stile libero), è la storia di Rebecca una ragazza brutta così brutta che più brutta non si può, di cui tutti si vergognano e tutti la nascondono e che alla fine, come nella favola del brutto anatroccolo che diventa un cigno, si trasforma in una ragazza di straordinaria bellezza non per il suo corpo ma per la sua anima e per il suo straordinario talento musicale. Ma la Veladiano ha detto che nel cassetto ha tanti altri romanzi e che ha esordito con questo proprio perché il meno compromettente e meno autobiografico. Il libro è ambientato a Vicenza, nella zona delle Barche, in una città che l'autrice definisce «bella e terribile» che «ha l'anima nera come il Retrone», spietata, ipocrita e perbenista, non per la «puzza da prete - come ha scritto Trevisan - ma per la puzza di nulla e per la mancanza di valori che la caratterizza».
Una storia come una favola
Una storia che più che una storia vera, che capita tutti i giorni (oggi tutte le ragazze grazie al trucco e alle cure estetiche anche se sono brutte diventano belle) è una favola, o meglio una metafora della vita che - come ha detto Mariapia nella presentazione - produce una serie infinita di emarginazioni e di marginalità. Il suo libro non è quindi la storia di una ragazza brutta ma di una emarginazione e di marginalità, una delle tante emarginazioni della nostra società, da quella degli immigrati a quella della solitudine, da quella della povertà a quella dell'incomprensione, da quella della droga a quella depressione. «La nostra vita - ha detto Mariapia - è bella e terribile, si costruisce su una mare di morti e tollera la diversità, la divisione, la bruttezza, la povertà, tutti i mali della nostra società cinica e spietata». Oggi a una ragazza si perdona tutto ma non la bruttezza. Come ha scritto la Aspesi: «Ma esistono ancora le bambine brutte? Se si, vuol dire che le tengono nascoste, perché in giro non se ne vedono: per proteggerle o perché i genitori se ne vergognano. C'è troppa bellezza in giro, e pazienza se è falsificata, omologata, impersonale, come se le belle bambine e le belle ragazze uscissero dalla pubblicità o dalla televisione, fabbricate tutte insieme dalla moda del momento».