NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Eduardo supera i confini del partenopeo

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Eduardo supera i confini del partenopeo

Voi siete attori principalmente di cinema e televisione anche se venite dal teatro. Pur essendo linguaggi molto diversi, potrebbe essere che lo stare sul palcoscenico arricchisce la vostra esperienza di artisti anche in altri ambiti?

G.E.: «Sicuramente, perché ti confronti col crescere sera dopo sera e te lo porti dentro. Nel cinema devi avere un dono di sintesi diverso, come attore, sul lavoro, molte volte finisce la giornata e pensi che potevi fare una cosa che non hai fatto e non puoi tornare indietro, invece a teatro la sera dopo la puoi sperimentare».

R.P.: «Io sono principalmente un attore di teatro anche se sono più conosciuto come attore di cinema. Negli anni le esperienze si sono incrociate perché il teatro si è un po' nutrito del cinema e il cinema ha cominciato a non avere più paura del teatro: dopo l'esperienza neorealista del cinema si aborrivano gli attori con il birignao e quel modo di recitare impostato, perché c'è la questione di parlare e farsi sentire. Oggi recitiamo coi radiomicrofoni e non abbiamo più il problema di spingere la voce. Detto questo, c'è stata un'esperienza molto interessante nei primi anni '90, quando si è creata una nuova drammaturgia contemporanea molto minimalista che ha abbassato un po' i toni del teatro. Io faccio proprio parte di quella "nouvelle vague" italiana dove recitavamo come se fossimo stati a cinema, in piccoli teatri della capitale, c'era un fiorire di questo "teatro da camera" in cui si parlava come stiamo parlando io e te adesso. Questo ha fatto sì che si creasse una nuova generazione di attori che era buona sia per il teatro che per il cinema. Così i due compartimenti stagni che erano una volta si sono un po' aperti e c'è stata un po' un'osmosi».

Però molti giovani di oggi è più facile che facciano prosa arrivando dal cinema, voi invece arrivate tutti dal teatro. C'è comunque l'idea che chi ha questo background sia avvantaggiato anche nel cinema.

R.P.: «Beh, francamente, lo penso anche io: non è solo un vezzo dire che io mi sento più un attore di teatro, c'è più sperimentazione e ponderatezza».

Spesso molti grandi autori vengono rivisitati in modo anche sostanziale e profondo, è possibile secondo voi un allestimento delle pièce di Eduardo completamente diverso da quello previsto?

G.E.: «Completamente è difficile, lo puoi fare con testi come "La grande magia" che sono più vicini a uno scritto pirandelliano che al suo modo di scrivere».

R.P.: «Questo di stasera è un po' un tentativo di rivisitazione che credo sia riuscito».

Qual è il lascito eduardiano sia per gli artisti che per la gente comune?

G.E.: «Immenso, alla stregua di autori internazionali e non a caso è uno dei più tradotti e rappresentati, ha una grandissima potenza e ovviamente stuzzica sempre metterlo in scena, trovi sempre delle analogie con autori europei di fine ‘800 e ‘900. È di grandissima rilevanza sia per il pubblico che per gli attori».

R.P.: «Direi una drammaturgia esemplare, le sue commedie sono quasi tutte molto centrate e lavorate, il fatto che lui le ha scritte e portate in scena e lavorate continuamente negli anni, questa è l'esperienza del teatro, è dinamica, a differenza del cinema: io quando vedo un mio film mi butterei nel fiume perché non posso più toccare e francamente potrei fare meglio di quello che vedo lì, se potessi rifare; tante volte, quando recito la giornata sul set poi vado a casa e m i viene un'idea migliore e non posso più farla, in teatro, invece, questa sera rifaccio poi ci ripenso e domani aggiungo qualcosa è molto interessante questa artigianalità, molto meno frustrante. Se ti dovessi dire, in finale, direi che il cinema mi piace vederlo e non farlo e il teatro mi piace farlo e non vederlo».

 

nr. 07 anno XVI del 26 febbraio 2011

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