NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Quel segno invisibile sulla tela bianca

Intervista con Alessio Boni, Gigio Alberti e Alessandro Haber, protagonisti di "Art" in scena a Thiene

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Quel segno invisibile sulla tela bianca

Prosegue la stagione di prosa, promossa da Arteven, al Comunale di Thiene, dove questa settimana è andata in scena la commedia francese "Art" di Yasmina Reza. Una pièce in cui tre amici litigano furiosamente tutto il tempo, recriminando cose presenti e passate, partendo dall'acquisto di un costosissimo quadro completamente bianco. Abbiamo analizzato l'opera con i tre protagonisti.

In questa pièce troviamo tre amici di vecchia data che non sembrano tali: la causa scatenante delle divergenze è una tela bianca alla quale viene attribuito un valore che non si capisce se è effettivamente reale o esageratamente sovrastimato. Il fatto che il pretesto sia la rappresentazione del nulla è un'aberrazione della nostra società contemporanea?

Alessio Boni: «Dal quadro parte tutta la loro idiosincrasia, se alla domanda "quanto l'hai pagato?" avessi detto: "200 euro"-"ah va bè, andiamo a cena". Invece: "200mila"- "ma sei cretino?". Loro sono tutti e due d'accordo perché dicono che il quadro fa schifo, uno lo dice all'inizio l'altro alla fine. Io invece ci credo davvero, pur entrando in un meccanismo più grande di me, del mercato dell'arte contemporanea di cui non capisco niente, però sono dentro, mi sento a livelli alti e quindi appagato e accettato dalla società. Questo deve arrivare: gli sbagli di queste persone; tu non devi avere la macchina, l'orologio il quadro, tu devi avere te dentro di te, punto e stop».

La tela bianca è il punto di partenza per chi guarda ma in realtà è il punto di arrivo per loro.

Gigio Alberti: «Lo spettacolo inizia e finisce con la tela bianca, che è il posto in cui forse tutti stiamo: questi pensavano, nella loro vita, di lasciare dei segni ognuno a suo modo e alla fine forse capiscono che non è così necessario lasciare segni e che il destino degli uomini è quello di passare senza segnare necessariamente qualcosa».

I tre personaggi vivono il rapporto di amicizia tra di loro tramite un'identificazione di se stessi attraverso l'altro: "Non può essere che il MIO amico abbia comprato un quadro del genere, io gli voglio bene ma non posso volergli bene se compra quel quadro". Perché io ti voglia bene, devi essere come me.

G.A.: «In realtà è così perché ci si nutre di somiglianza nell'amicizia, del fatto che l'altro ti stimi: è un andare alla ricerca di una motivazione del proprio esistere nell'esistere dell'altro, cioè non di esistere per sé ma esistere in quanto gli altri ti fanno esistere, nel momento in cui gli altri cessano di farti esistere, tu crolli perché vivevi loro come giustificazione di te stesso. Le amicizie si creano anche su affinità, soprattutto quelle giovanili, poi si prendono strade diverse, allora quanto è possibile mantenere un'amicizia se le strade divergono così tanto? Che cos'è l'amicizia? Un rapporto che si presupponeva non avere tutte le difficoltà del rapporto d'amore invece ce le ha perché dentro ci sono tutte le cose che ci sono nell'amore tranne il sesso: il possesso, il prevalere sull'altro, i giochi di potere. Quando io dico: "amavo il tuo modo di guardarmi", è palese che è una cosa molto osé, perché poi i francesi vanno molto dentro ai problemi, un italiano non la direbbe mai, ma rappresenta quello che è, uno non la dice ma la sente. Il modo di guardarti di un amico ti fa sentire importante perché lui ti guarda in quel modo, nel momento in cui smette di farlo tu smetti di essere importante per lui, ti chiedi dove hai sbagliato o visto i tipi che sono, dove ha sbagliato lui».

Alessandro Haber: «Personalmente credo che ognuno debba avere la sua personalità,io ho degli amici che la pensano diversamente da me, non è detto, ognuno ha le sue. Io credo più al sentimento dell'amicizia che non a quello dell'amore, perché l'amore se ne va, siamo tutti ricambiabili, ma è più dolorosa la perdita della morosa che non dell'amico. Si sa che le storie d'amore finiscono, non è mai previsto che l'amicizia finisca, nella prospettiva. Almeno per quanto riguarda me».

Come ne "Il dio della carneficina" vediamo persone colte, aperte, civili che si scontrano con recriminazioni, ripicche e insinuazioni. Ivan, che è il personaggio meno istruito dei tre, riesce però a cogliere maggiormente l'essenza delle cose. Come mai, spesso, sono i personaggi più altolocati economicamente e culturalmente ad essere quelli più insensibili?

A.B.: «C'è una frase che dice Ivan alla fine del suo monologo: non sopporta più i discorsi razionali perché tutto ciò che c'è di bello e di grande nel mondo non è mai nato da un discorso razionale. Quindi a volte il troppo raziocinio fa distanziare dai sentimenti che poi è la forma primaria per un rapporto tra esseri umani: il denaro, i conti, le cose ti portano via la testa da una parte e ti fanno dimenticare l'essenza primordiale. Ivan che è il più proletario della situazione coglie il senso della vita, gli altri due invece sono lì a cercare di varcare il jet set dell'arte contemporanea, di essere all'altezza, di essere accettati nella borghesia parigina. L'altro è più se stesso: alla fine credo che essere se stessi sia la vetta principe di ogni essere umano».

A.H.: «I soldi ubriacano. Anche se non è detto, ci sono persone che magari non hanno studiato e sono più umili e magari hanno la capacità di pensiero di evolvere un concetto, un fiuto e un'animalità che permettono di cogliere di più certe trasformazioni e passaggi della vita. Certo, è meglio leggere, studiare e arricchirsi di cultura che no, ma io credo che se uno fa quello che fa con dignità e credendoci, è salvo».

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