 |
 |
|
  |
||
 |
 |
|
Il suo stile, d’arte e di vita, e l’ascendente di cui ha goduto presso i contemporanei costituiscono il punto focale dell’esposizione di Rovigo. Fortuny è però presente con un numero assai ridotto di opere: riesce pertanto problematico cogliere appieno il senso della mostra stessa, cioè la pretesa influenza del celebre ingegno catalano su parte della nostra cultura artistica.
Vi si offre
soprattutto una documentazione particolareggiata della borghesia salita alla ribalta del Paese nuovo, desiderosa di sfruttare il proprio benessere e di ben apparire, mentre il reale portato culturale di quest’arte rimane sottaciuto.
Mettendo inoltre in luce con un criterio univoco autori di riconosciuto significato accanto a nomi rimasti a tutt’oggi oscuri, e sia lecito di fronte a certi dipinti supporre non a caso, si è appiattito il discorso sopra un fortunysmo talvolta pretestuoso. La mostra ne soffre, sicché il visitatore rischia di percepire soltanto casualmente il valore di ciò che gli viene proposto, trascurando di approfondire pagine di pittura esemplare a vantaggio dello sfavillio di opulenze borghesi, languori femminili e cianfrusaglie esotiche.
Sono invece esposte anche opere di alto interesse e notevole qualità espressiva.
Così, ne Il mercato in Campo San Polo a Venezia [in alto], di Giacomo Favretto, l’animazione di donne e uomini al lavoro si traduce nel fermento delle cadenze cromatiche, stese soffici e vivaci ad impalcare le figure sullo sfondo del campiello prospettato nella luminosità radente del mattino; impossibile qui leggere una qualsiasi impronta di Fortuny, che d’altronde è difficilmente riscontrabile anche in Soli, o Ponte di Rialto, dove il l’artista veneziano abbozza la sua speciale città, presa a pretesto per inscenare momenti di briosa sperimentazione.
In Ultimo sguardo allo
specchio [a des.], Giovanni Boldini non si esime da qualche manierata indulgenza, giocando d’effetto tra la sontuosità del colore e l’aggraziata posa della giovane, evidenziata dagli impeccabili rimandi di luce, dalla specchiera al vaso di vetro alle pieghe del costume. Siamo al 1878 e appena si intuisce il futuro ritrattista delle incantevoli signore immortalate negli anni di Parigi.
Antonio Mancini è testimoniato da opere di vario soggetto, legate dal filo conduttore di un colore succoso, egualmente emotivo quando ridondante e quando si scioglie in lievi lucentezze, come nel drappeggio del tessuto sulle ginocchia della ragazza de La lettura.
Ed è la brillante fragranza di tinte tenui, abilmente diffuse in morbidezze impalpabili, ad attirare lo sguardo verso il Ritratto di Teresa Maglione Oneto [a sin.], che Domenico Morelli firma nel 1879, quasi a concedersi una pausa dalla visionarietà misticheggiante de La preghiera o dalle reminiscenze bibliche de La Maddalena.
Ancora, spicca contro l’ombra del bosco il gioco sofisticato del bianco e dell’azzurro degli abiti femminili di Ritorno dal ballo, di Giuseppe De Nittis, felicemente toccati dalle prime luci.
I nomi sono dunque molti ed è un piacere soffermarsi su alcuni, siano essi famosi o poco noti, il Capobianchi de Il vestito giallo, tutto un dialogare di tenerezze cromatiche, l’allegro Michetti rusticano dello Sposalizio in Abruzzo [in basso], la vezzosa Donna con ventaglio, di Edoardo Tofano, dal sorriso ammiccante; e via osservando e decantando ove necessario, forse proprio ad iniziare dall’insistito “segno di Fortuny”.
nr. 22 anno XVI dell'11 giugno 2011
