Il gioco scenico più ironico lo abbiamo nel momento in cui viene dato corpo al binomio “casetta- cassetta”: basta una sola “s” ribaltata, che sembra quasi un punto di domanda, per creare un’equivalenza di valori tra due oggetti ma soprattutto tra due concetti, tramite gli oggetti di scena. Qual è la dinamica tra oggetto, concetto, parola e motivazione del personaggio?
«È una dinamica alchemica: tutti i linguaggi sono come le pietre e i metalli grezzi che l’alchimista usa all’inizio e solo nel lavoro di laboratorio fondendo i materiali e facendoli interagire tra loro ( oggetti, corpi, parole, musiche, luci ). Tutto questo tu lo mescoli per ottenere l’oro come l’alchimista antico, quindi è proprio è una dinamica di sapienza che nasce dall’interagire delle materie: un corpo è materia, ma anche una parola o una luce lo sono».
Voi avete detto che in questa pièce c’è un rimbalzo continuo tra pubblico e privato, tra osservare, spiare, mettersi in mostra eccetera. Pubblico e privato e teatro e televisione, viaggiano su binari diversi?
«Teatro e televisione sì».
Però voi avete portato delle dinamiche televisive in scena.
«La missione del teatro, da sempre, è quella di raccontare la verità del tempo in cui si vive e il nostro un tempo ossessionato dalla televisione. Se vogliamo raccontare il nostro tempo, partendo poi in particolare da questo “Avaro”, era l’avaro a farci capire come siamo veri e finti, reali e simulacri nello stesso tempo e questo era inevitabile. Talvolta anche la televisione ci riesce, ma il 99% delle volte deve mentire, è il suo status, anche la politica. Il teatro deve fare quell’ 1% che invece è mettere il dito nelle piaghe e quelle sono le nostre piccole umanità, i nostri sogni e i nostri incubi»
Voi avete lanciato alcuni progetti molto interessanti come quello della “non scuola”, esperienza teatrale per ragazzi, il Teatro Stabile di Scampia, “Arrevuoto” eccetera. I ragazzi delle periferie di Napoli vivono delle realtà molto estreme e la delinquenza è il modello di riferimento più facile da seguire. Come siete riusciti a creare una situazione di normalità e creatività all’interno di una parte della società che ruota attorno a dei non valori con dinamiche quasi incomprensibili per chi non è di Napoli?
«È possibile prendendo sul serio questi adolescenti, ascoltandoli, ma è possibile a Scampia come in Africa. La creatura è ancora aperta a una possibilità, nonostante tutto. Ho lavorato con alcuni che erano piccoli, c’era un ragazzino che quando me l’hanno portato, qualsiasi cosa gli chiedessi rispondeva sempre di no, al terzo “no” cominciava a dare calci al palcoscenico. Noi non siamo entrati da soli, la prima cosa abbiamo chiesto a dei bravissimi operatori sociali di Napoli, persone di una grande sensibilità, di guidarci perché noi non eravamo in grado. Poi un giorno, per magia, anche questo ragazzino si è sbloccato e da lì è sempre stato in scena».
Ma forse loro sono aiutati anche dal fatto che la loro tradizione teatrale è popolare e nasce nelle vie.
«Totò, Eduardo. Abbiamo cominciato la “non scuola” a Ravenna nel ’91, poi con gli adolescenti in tutte le parti del mondo, compreso anche il Veneto: adesso stiamo facendo un progetto simile ad “Arrevuoto” a Venezia dove, con la Fondazione di Venezia, mettiamo insieme 40 ragazzi che arrivano dagli istituti di Asseggiano, proprio la terra ferma (e di questi 40, 35 sono stranieri: moldavi, Bangladesh, Africa eccetera) con 40 del liceo Marco Polo di Venezia. Anche a Napoli, i ragazzi di Scampia li avevamo messi con i ragazzi del liceo “bene” Antonio Genovesi di Piazza del Gesù. Dopo il primo momento, che ovviamente è di sconcerto, perché sembrano inconciliabili, poi c’è stato l’ascolto. Questo è il grande segreto: ascoltiamoci».
E le famiglie come hanno reagito a questo progetto?
«Io ricordo solo entusiasmo, a tutti i livelli, sia da parte delle famiglie di Scampia che di quelle del centro».
nr. 40 anno XVI del 26 novembre 2011