NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
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Che cosa spinge un laico a farsi pellegrino?

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Che cosa spinge un laico a farsi pellegrino?

Abbiamo visto che la presenza sanitaria è essenziale per il pellegrinaggio. Parliamone ed in particolare cerchiamo di capire se esiste o no uno stato di emergenza permanente dato che ci sono centinaia di persone ammalate anche molto gravi da tenere sotto attento controllo.

Che cosa spinge un laico a farsi pellegrino? (Art. corrente, Pag. 3, Foto generica)VINCENZO RIBONI- Il viaggio dura una giornata circa, è lungo e coinvolge fortemente le persone. La parte del medico è quella di chi va per curare e affrontare Lourdes con spirito di riconciliazione con se stesso e con gli altri; poi c’è la parte professionale che è di sostegno non solo agli ammalati ma anche ai pellegrini, che sono persone con la loro realtà e qualche volta la propria forma di patologia. Mettiamo assieme tutto, il coinvolgimento personale per esperienza religiosa e per esperienza professionale. Per tantissime aspetti questa seconda ha caratteristiche altrettanto forti sul piano della relazione, è un modo di stare assieme a loro. Tutto questo è difficile da mettere in pratica nella nostra attività quotidiana perché le persone e i pazienti sono tantissimi e il tempo non è così ampio; lì invece c’è un’attività medica che lascia emergere forte e dominante anche questo aspetto relazionale che si concilia con la parte sanitaria e professionale. La lunghezza del viaggio è relativamente pesante, c’è una capacità di esercitare la speranza che va oltre il fatto delle ore o delle condizioni di sacrificio e di poco spazio in cui ci si ritrova. Tutti vivono il pellegrinaggio, anche i più gravi, con una serenità di fondo che invece nella quotidianità non hanno e non abbiamo, quale che sia la ragione di tutto questo. Nel viaggio si vive con serenità e la fatica e le lunghe ore, lo ripeto, contano molto relativamente.Forse è perché ci si sente proiettati verso una meta importante. Nel percorso personale del pellegrino ammalato e sofferente c’è una capacità maggiore di vivere l’esperienza con serenità convinto che deve mettersi in gioco e che questo in quel contesto vuol dire sopportare meglio la sofferenza, ma assieme a tutti gli altri.

Che cosa spinge un laico a farsi pellegrino? (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)GIUSEPPINO SCANFERLA- La mia esperienza è di una trentina di pellegrinaggi. Trovo che il punto di vista di Riboni è comprensibile e corretto. Diciamo anche che tutti i partecipanti vengono presi in carico per il viaggio dopo una catalogazione delle patologie affidata al medico. Oltretutto abbiamo in treno una specie di pronto soccorso aperto costantemente per i casi più gravi. Il malato è seguito sempre, dal medico e anche da tutti gli altri, dagli infermieri ai religiosi, ecc. Credo che la spiegazione vera di questa capacità di sopportazione arrivi anche dal fatto che per noi gli ammalati in pellegrinaggio sono sempre in prima fila, siamo noi che ci adattiamo con attenzione al loro passo e non viceversa, compresa la capacità di ascolto. Normalmente non è così e la frenesia della vita quotidiana crea la sofferenza isolata dell’ammalato, lo lascia solo. In pellegrinaggio non è solo, al contrario. La differenza sostanziale è questa.

WALTER TROTTA- Nei miei tredici pellegrinaggi ho visto tanti visi tante situazioni. Un elemento comune però c’è ed è dato dalla solitudine dell’ammalato che soffre sì per un male fisico importante, spesso però ancora più accentuato dalla solitudine. Quando al ritorno ci lasciamo, di solito ci abbracciamo, magari c’è un pianto liberatorio, c’è il compimento di un senso di completezza che dopo il pellegrinaggio si ha e si sente distintamente mentre prima non c’era. Non sarà per tutti così ma per molti sì. Ricordo una persona che si isolava dal gruppo continuamente e la trovavo sola e piangente. Dopo tanti giorni il singolo è stato coinvolto dalla massa, dal gruppo: è un messaggio importante che dice chiaramente che si può, si può superare il problema di accettare la malattia rientrando nel gruppo senza sentirsi più isolati. Come dire che è molto più produttivo e rasserenante esporsi e non avere più paura di essere soli. A Lourdes non si guarisce magari sul piano fisico ma si ottiene sicuramente la guarigione sul piano morale. In questa vita fatta di corse non si sa bene con quali obiettivi e condizionati dal mondo esterno, a ritmi dettati da altri, tutto questo è difficile da capire. Invece qui bisogna salire e scendere dal treno facendo del proprio isolamento una questione che appartiene anche agli altri

GIANNI CELI- Vero, questa esperienza fatta peraltro al di fuori dai pellegrinaggi tradizionali, mi ha lasciato un segno che non passerà; un po’ l’impatto con la natura in cui sei immerso, un po’ il coinvolgimento spirituale e di fede che tu voglia o non voglia. È qualcosa di importante ed ha riguardato anche gli amici con i quali ho viaggiato. Per questo l’anno prossimo ritorniamo a Santiago ma scegliendo il cammino più a nord che è ancora più impegnativo attraverso i Paesi Baschi. Cercheremo di nuovo questa atmosfera meravigliosa in cui tra l’altro la natura ha una parte molto importante, direi determinante. Ecco la ragione per cui la voglia di tornare è tanto grande.

 

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nr. 37 anno XVII del 27 ottobre 2012

Che cosa spinge un laico a farsi pellegrino? (Art. corrente, Pag. 4, Foto generica)

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