NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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È un gioco, il teatro

Accanto alle interpretazioni del “Discorso del re” di barbareschi hanno colpito le scenografie, “ho voluto dimostrare che il teatro non centra niente con il cinema, ho pensato ad un teatro di burattini”

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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È un gioco, il teatro

Prosegue la stagione della prosa al TCVI con “Il discorso del re”, portato in scena da Luca Barbareschi che ne firma la regista e che interpreta la parte del logopedista australiano che aiutò Albert di Windsor, interpretato da un applauditissimo Filippo Dini, a curare la balbuzie. Albert di Windsor era il fratello di Edward, che divenne re dopo la morte del padre Re Giorgio V, ma che abdicò a favore del fratello dopo breve tempo per poter sposare l’americana Wallis Simpson. Albert era il padre dell’attuale regina d’Inghilterra Elisabetta II e salì al trono col nome di Giorgio VI. Abbiamo incontrato Luca Barbareschi.

In questa commedia abbiamo una struttura con due personaggi centrali che si equilibrano a vicenda, solo apparentemente c’è uno più debole e uno più forte: sono entrambi molto forti, ma frustrati e hanno le loro debolezze.

È un gioco, il teatro (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Luca Barbareschi: «Sì, sono dei personaggi molto interessanti dal punto di vista della loro struttura psicologica, sono due archetipi, l’artista aperto emotivo e dall’altra parte c’è un uomo completamente chiuso e contratto in una vita istituzionale molto complessa. È un bellissima metafora di come le emozioni possano dare grande vita ad un’altra persona. In realtà il logopedista non è nemmeno un medico, è semplicemente un uomo d’istinto».

David Seidler, lo sceneggiatore originale, è stato balbuziente anche lui ed oltre a questo, ha scritto anche la sceneggiatura di un bellissimo film di Coppola, “Tucker e il suo sogno”, sull’imprenditore americano che inventò automobili avveniristiche. I personaggi da lui descritti sono persone speciali: la normalità che percepiamo è data dalle loro debolezze o dal fatto che il superamento degli ostacoli che hanno dovuto affrontare è per noi, oggi, qualcosa di più realizzabile rispetto alla loro epoca?

«Io credo che la grande capacità di Saidler, come nei grandi scrittori, sia la sensibilità e la psicologia di affrontare le persone. Come Cechov: quando scrive i personaggi vuoi bene a tutti, c’è una specie di equanimità relazionale per cui tu ti immedesimi quando parla il maestro ne “Il giardino dei ciliegi”, parteggi per lui o ne “Le tre sorelle” o quando parla Nina ne “Il gabbiano”, ti si spezza il cuore per i tuoi sogni, indipendentemente che sia una nobile o non nobile, è la capacità proprio di racconto che è interessante».

C’è moltissima ironia in questo testo che però non è né dissacratoria né irrispettosa : il re è visto come uomo, ma la sua invalidità e le sue paure non ne sminuiscono in ogni caso l’autorità o il rango. Il dottore logopedista si chiama Logue, è australiano, popolo spesso canzonato dagli inglesi per l’accento. Tra l’altro lui non è nemmeno medico. Il re diventa re quasi per caso. Ci sono davvero tanti elementi da mantenere in equilibro. È un testo vincolante o lascia spazio alla visione dei registi?

«Mah io sono molto rispettoso, io sono musicista, suono chitarra e pianoforte, per cui non ho mai pensato che le interpretazioni di un brano prescinda da una scrittura o partitura, l’interpretazione è all’interno delle regole: quando Muti dirige il Requiem di Verdi non cambia neanche una nota, eppure se lei sente il Requeim fatto da Muti o da Karajan... le faccio un esempio: in questo spettacolo ho preso la VII di Beethoven, che ha un movimento molto bello, avevo prima preso quella di Karajan e poi ho sentito quella di Abbado e ho scelto Abbado».

Lei marca molto sull’amore del dottore per il teatro: Ricardo III, tra l’altro il momento del musical “Riccardo III” è geniale, Casa di bambola di Ibsen, Le tre sorelle di Cechov, è un meta teatro abbastanza elisabettiano. Mi viene in mente Amleto che mette inscena l’uccisione del padre con il veleno nel’orecchio.

«Mah, questo fa parte del mio bagaglio culturale: quando decisi i provini potevo scegliere cosa fare; poi per l’Inghilterra è più facile perché loro hanno un rapporto di un certo tipo con Shakespeare, “per l’Italia” devi trovare delle cose diverse. Non ho pensato necessariamente agli elisabettiani, mi piaceva raccontare questi provini e soprattutto la frustrazione dell’attore quando si trova a fare i provini, che è sempre tenera e tragicomica, una forma dì sadomasochismo perché l’attore puro è un masochista: passi la vita a sentirti dire che non sei giusto, che è una roba tremenda psicologicamente, puoi solo godere del fatto di essere rifiutato, sennò uno normale non lo farebbe̱».

È un gioco, il teatro (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)

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