NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Un libro, due mele e un coltello

di Alessandro Scandale
a.scandale@gmail.com

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Un libro, due mele e un coltello

Pensi che l'architettura del futuro, e la gestione della cosa pubblica, debba prevedere un nuovo modello per una società diversa e migliore?

«Mi facevano notare che la mia azione politica più efficace era stata progettare un ristorante, molto più di un attivismo. La cosa mi ha onorata ma anche fatto riflettere. Il fatto che in quel locale le persone stiano bene, che sia frequentato da un vasto pubblico, per età e formazione, è per me un grande risultato. L’architettura riguarda la costruzione di scenografie, di spazi per la vita. Il modo in cui è fatta determina e non solo è determinata da uno stile di vita e di comunità. Le persone non hanno competenza a riguardo, o pochissima, e delegano quindi ad altri la parte professionale, ma anche lo stile di vita sotteso dallo spazio che abitano. Quando guardiamo non siamo più abituati a conoscere, ma tendiamo e provare emozioni. Le figure quindi sono finite nella parte irrazionale, nell’ombra, e quindi ci possiedono. Una volta i quadri contenevano moltissime informazioni, erano mandala, insegnamenti nel modo in cui erano disposte le figure, i simboli associati, i colori. Le persone conoscevano quei simboli allo stesso modo in cui noi oggi consociamo i nomi dei cantanti e dei calciatori. La cultura visiva virtuale ha sottratto al corpo il suo ruolo conoscitivo. La mano artigiana, che disegna o che scrive, conosce nel farlo. Guardare alla tv come si fa non è sufficiente. Mio padre faceva disegnare le biciclette agli studenti a memoria: quasi nessuno ci riusciva. Io sono così felice di aver trovato un tablet che mi consenta di schizzare e disegnare a mano al computer e mi emoziona molto di più di un programma. L’intuizione è lasciata nel suo campo irrazionale, quindi è passione e colpi di testa. Il pensiero, imprigionato nel suo delirio di onnipotenza, è lasciato solo a comandare. Ne deriva una condizione umana e collettiva divisa e il mio lavoro tenta di proporre un’integrazione, o per lo meno di suggerire la necessità di porsi il problema».

Un libro, due mele e un coltello (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Oggi molti usano il termine "green" per mettersi in pace con la coscienza, ma forse per un futuro più sostenibile ci vorrebbe ben altro: cosa secondo te?

«La coscienza è proprio il tema centrale. Io credo che portare l’attenzione sul sentimento alla pari del pensiero, sia una strada per costruire un’esistenza consapevole e responsabile, personale e collettiva. Pensiamo al caso italiano: siamo tutti sottoposti ancora alle regole genitoriali, siamo figli e oscilliamo tra ribellione adolescenziale e comodità di poter delegare qualsiasi responsabilità. Quali sono i discorsi ricorrenti? È colpa di questo e di quello, dei governanti, del superiore, del capo, della sfortuna... Se non sono green mi danno la multa, loro che hanno deciso che non si deve sprecare energia. Nel libro, all’inizio, mi sono soffermata a riflettere sul senso della sostenibilità. È l’immagine del pianeta preso in prestito dai figli, ai quali va restituito almeno nella condizione nella quale è stato ricevuto. Il fatto che venga eluso questo fatto determina un sentimento di tradimento in chi ha prestato, traduce quella mancanza di rispetto in mancanza di affetto. In particolare le nuove generazioni, ora che i media incalzano con scenari apocalittici se non si corre ai ripari: chi rischia di più? I figli. Come possono accettare un simile carico? Un atteggiamento davvero ecologico è consapevole di quanto tutto sia interconnesso e su questo basa i comportamenti. Siamo interconnessi come esseri umani tanto quanto noi e l’ambiente. Questa è anche una grande risorsa, ma impone anche di averne cura, perché tutto ci riguarda direttamente. Deleghiamo alla tecnologia la soluzione di problemi derivati da uno stile di vita distratto, e così perdiamo l’occasione di sentirci partecipi. Una vita green integra le buone pratiche con scienza e tecnologia».

Parliamo di Vicenza: come la vedi come architetto e come donna?

«Non sono nata a Vicenza, ho abitato in diverse città venete e ognuna ha la sua anima. Nonostante abbia scelto di venire ad abitare qui ben due volte, mi sto chiedendo perché questa città sia sempre stata per me poco frizzante, poco gioiosa, per quanto bellissima. È una città che chiede protezione, il santuario di Monte Berico è molto importante: a Vicenza moltissimi erano gli istituti di assistenza e religiosi, con grande passaggio di stranieri e di pellegrini. Il teatro ha perso l’occasione di essere luogo civico, non ha piazza. La Basilica, dopo la mostra che ha fatto furore, si è assopita. Manca ancora lo slancio, è una città intimorita e schiva. Mi piacerebbe che la Vicenza di domani valorizzasse le sue potenzialità, la sua bellezza, i talenti, accogliendo la propria identità. Siamo in un territorio fortunato e molto adatto a potenziare il senso civico, l’artigianato, una produzione locale di alto valore, un turismo attento e una buona qualità della vita. Tutto ciò può rendere questa città esemplare per una nuova Italia».

Alle presentazioni il pubblico ha dimostrato interesse per questi temi: qualcosa sta cambiando?

«Lavorando in ambito fieristico da parecchi anni con proposte innovative so che l’interesse verso questi argomenti fatica a manifestarsi, ma credo che i tempi ora siano maturi, e la gente ha bisogno di nuovi stimoli, di speranza, di poter intravvedere e sognare, per poi progettare, un futuro desiderabile. Abbiamo due possibilità: protestare e ritenerci vittime di un disastro, rimanendo immobili e alimentando il disastro stesso, oppure cambiare modo di pensare. L’istinto di sopravvivenza si muove cercando soluzioni. Le cose stanno cambiando, tutti noi abbiamo la necessità di una ventata di aria fresca e di vitalità. E i piccoli grandi passi avvengono. Io li vedo. Infine, vorrei ringraziare in particolare Deborah Morseletto e Luisa e Giuliana Grigiante, con le quali collaboro e che hanno contribuito a finanziare il libro».

Sophia Los è nata a Venezia ma vive a Vicenza. Nella sua professione di architetto coinvolge psicologia e letteratura, integrando principi di percezione e reazioni emotive per una progettazione dello spazio su misura, attenta alla qualità dell’abitare. Approfondisce e sviluppa, attraverso un approccio psicologico e antropologico, strategie per la diffusione di una cultura sostenibile. In quanto terza generazione di architettura in famiglia, fin da studente si forma presso lo studio fondato dai genitori Sergio Los e Natasha Pulitzer, dove acquisisce un approccio sistemico al progetto, il pensare per immagini proprio del disegnare. Dal 2003 ha uno studio proprio, collaborando in rete con un gruppo di professionisti e aziende.

 

nr. 08 anno XVIII del 2 marzo 2013

Un libro, due mele e un coltello (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

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