NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Come si esporta un messaggio umanitario

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Come si esporta un messaggio umanitario

Vari modi di esportare,l come vediamo: il video su Sandro Frigiola è chiarissimo. Che cosa ne pensate di questa capacità di esportare la speranza, oltre che la tecnologia e la buona sanità in luoghi del mondo apparentemente senza speranza?

VINCENZO_RIBONI (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)VINCENZO RIBONI- Ho visto di tutto, anche dove sono stato recentemente in Angola. Esperienza interessante la mia, fatta per sostituire qualcuno che non c'era momentaneamente, come facciamo da dodici anni a questa parte. Le attrezzature sono sempre scadenti e insufficienti, ma si cerca sempre di fare il possibile, di inventare con strumenti che qui non utilizzeremmo mai, ma che lì hanno invece una importanza decisiva, essenziali in quelle situazioni.

NICOLETTA PASIN- Sono tornata a dicembre dall'Afganistan dove ho lavorato per sei mesi con Emergency in un ospedale prima riservato alle vittime di guerra poi aperto alla maternità e alla problematiche di gravidanza e medicina interna. In quel villaggio a nord del paese la guerra non si vede direttamente ma ci sono molte problematiche connesse, si vedono gli effetti, dato che il paese è il più minato al mondo.

GIOVANNI_CECCHETTO (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)GIOVANNI CECCHETTO- Ci sono alcune zone particolarmente disagiate. L'ultimo viaggio per me è stato in febbraio nel Congo dove ci sono suore Saveriane che hanno organizzato un bellissimo centro per disabili: sono sordomuti che fanno una scuola di sei anni e vengono preparati per un inserimento lavorativo. Ma ci sono anche altri, tante mamme che portano i loro bambini dopo giorni di viaggio. La città è Ubira, al confine col Burundi. Ora quella zona è coinvolta nella guerra nel senso che le suore ci raccontano di spari nella notte e di morti nella notte. La città è presidiata dalle truppe dell'Onu e non è consigliabile allontanarsi per più di 20 o 30 chilometri. Come Caritas siamo anche in India e in Thailandia e in Birmania, dove ci sono sempre migliaia di profughi curati da un missionario laico che ha organizzato e coordina un centro che si occupa di grandi masse di persone allo sbando, perlopiù espatriate senza permessi e in cerca di riparo.

Il costo e la molla che portano persone impegnate normalmente nel loro lavoro a fare qualcosa che è eccezionalmente fuori dalla quotidianità qual è?

ANTONIO ZULIANI- Sono molte le molle che spingono a offrire il proprio tempo, a mettere magari a repentaglio le proprie situazioni di partenza: ci sono però motivazioni anche emozionali, magari anche sensi di colpa, ma quel che conta è un buon equilibrio perché uno dei grandi rischi è quello di non riuscire a fare a meno di andare in missione, mentre invece ci si deve andare per dare aiuto ai più deboli e non per aiutare se stessi. È quindi necessaria una ottima formazione perché impegnare se stessi semplicemente ad immergersi in un percorso che poi si scopre pieno di amarezze non ha senso. Infatti ci sono persone che cominciano queste attività con le migliori intenzioni e poi scompaiono perché semplicemente non reggono. Invece nessuno deve essere esposto a rischi emotivi e psicologici troppo elevati. perché il costo sarebbe poi a carico di chi si vuole anziché aiutare. Negli ultimi terremoti con il mio servizio di Croce Rossa ho visto che il nostro metodo di preparare bene il personale è l'unica via sicura: chi è tranquillo e preparato non si prendere in carico le persone del territorio ma le aiuta veramente e sa fare funzionare i campi, se sa relazionarsi alle strutture locali, se sa tollerare i disagi di chi esce da una calamità. A questo patto, la conseguenza è che se ne esce sempre bene.

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