Questa settimana al Comunale di Thiene è andata in scena la commedia “La coscienza di Zeno”, tratta dal celebre romanzo di Italo Svevo pubblicato nel 1923, diretta da Maurizio Scaparro con Giuseppe Pambieri nella parte di Zeno Cosini. La storia, raccontata in prima persona, è quella di Zeno Cosini, ricco cittadino della Trieste del primo ‘900 che va dall’analista raccontando le sue nevrosi: il rapporto col padre, il conflitto col cognato, la dipendenza dal fumo e la relazione con le donne: ama una ragazza, sposa la sorella e poi avrà un amante che si accorge di amare moltissimo nel momento in cui lei lo lascia. La vita del protagonista avrà una svolta nel finale, in cui la Prima Guerra Mondiale viene descritta in maniera sorprendentemente profetica. Abbiamo incontrato il celebre attore Giuseppe Pambieri per analizzare questa trasposizione teatrale fatta da Tullio Kezich.
Il titolo è la “Coscienza di Zeno”, lui però si pone degli obiettivi fittizi e poi si auto-sabota e questo è un modello che lui applica a tutta la sua vita. Il testo si regge sulla psicanalisi che all’epoca era agli inizi però non riesce a sciogliere gli snodi principali, che rimangono irrisolti. Se vediamo la sua biografia, rispecchia molto la sua vita, ma anche la società dell’epoca: hanno delle abitudini che oggi sono desuete, suonano strumenti musicali e questo sembra addirittura essere una discriminante nella scelta del marito. Soprattutto negli ultimi anni noi siamo molto cambiati e viviamo in una realtà diversa. Secondo lei che cosa rimane attuale di questo testo? C’è il rischio che diventi obsoleto data la situazione che viviamo oggi?
Giusepe Pambieri: «In 50 anni è stato fatto 4 volte, questa è l’ultima ed è quella che ha più successo di tutti. Sostituisca l’ultimo Ipad invece di suonare il violino, lei ha quello in casa e io rimango un po’ indietro. I sentimenti sono importanti, quello che si agita, i rapporti fra gli antichi greci e i romani erano uguali a come sono oggi, ovviamente stiamo parlando di una borghesia triestina dove c’erano anche dei modi e una moralità diverse da oggi, siamo in una zona mitteleuropea dove già si respira una libertà. È una commedia che parla molto anche delle donne e la donna ha un rilievo importante. Stiamo parlando di uno dei romanzi chiave del primo Novecento perché dalla letteratura romantica si passa a questa letteratura, si parla per la prima volta di psicanalisi. Lu ha sempre un atteggiamento molto ironico con la vita, è un perdente- vincente, carico di tutti quei difetti che abbiamo tutti noi, l’incertezza, tutte le malattie immaginarie che ci vengono perché somatizziamo, questa è una cosa molto moderna, noi la viviamo tutti i giorni».
Lui è un personaggio che oggi può risultare irritante: conformista, inadeguato alle responsabilità, svia sempre da se stesso e vuole una moglie-madre. Ama una donna, ma sposa la sorella. Tutto gli scivola davvero addosso. Eppure è simpaticissimo. Qual è il punto di forza di questo personaggio così in balìa degli eventi?
«L’ho individuato in un fatto fondamentale: chi vede questo spettacolo vede lui che incarna tutte le debolezze e fragilità che abbiamo noi e che spesso incontriamo nella vita. Vedere che queste debolezze diventano positive o addirittura vincenti è molto gratificante per chi guarda: alla fine si può anche riuscire, nonostante la guerra. La vita non è né bella né brutta, ma è originale: lui ha questo merito, che di fronte alla realtà che lo circonda, lui riesce ad essere plastico e a trasformarsi a seconda degli eventi. Li accetta, è pronto a mettersi in gioco sempre, cosa che non fanno gli altri, irrigiditi nel loro moralismo e conformismo e questo è una grossa positività del personaggio che viene fuori molto bene. È un uomo che sa benissimo che c’è la morte e ci pensa sempre, ma per tutto il resto ha sorriso ed ironia. Poi c’è questo finale apocalittico terribilmente profetico».