Questa settimana al Teatro Astra è andato in scena il monologo “La semplicità ingannata” scritto e interpretato dall’artista friulana Marta Cuscunà. La pièce è tratta dall’omonimo testo scritto da Arcangela Tarabotti, monaca e scrittrice vissuta nella prima metà del ’600, in cui viene denunciato il sistema quasi industriale con cui le bambine dell’epoca venivano rinchiuse nei conventi come unica soluzione qualora non si fosse riusciti a “piazzare” la bambina in quello che era un vero e proprio mercato del matrimonio. Arcangela Tarabotti fu una delle suore protagoniste della cosiddetta “resistenza delle clarisse di Udine”, le monache avevano sfruttato la connivenza e il potere delle famiglie per poter ricevere visite e fare entrare nel convento testi proibiti, creando un centro culturale e intellettuale referenziatissimo e vivacissimo per l’epoca. Pur essendo un’emergente, Marta Cuscunà ha vinto numerosi premi per i suoi spettacoli.
Questo spettacolo è stato realizzato col sistema del microcredito, ci spieghi come avete fatto?
Marta Cuscunà: «Io insieme a Marco Rodante, l’assistente alla regia, e alla crew di Centrale Fies, ci siamo interrogati sulle condizioni che stiamo vivendo tutti quanti e abbiamo pensato a cosa è successo nel mondo dell’economia dei paesi emergenti: hanno usato il microcredito per progetti di persone singole che difficilmente avrebbero avuto accesso ai finanziamenti delle grandi banche. Hanno usato il microcredito, per cui piccoli crediti da realtà molto piccole che non davano finanziamenti a fondo perduto, ma investivano su di te con l’idea che il tuo progetto sarebbe andato bene e saresti stato in grado di restituirgli la quota che ti avevano dato. “È bello vivere liberi” lo avevamo fatto già in più 100 teatri e abbiamo chiesto a chi già conosceva il nostro lavoro con l’idea di dire: “tu ci dai 200 euro e noi te li restituiamo scalandoli dalla replica del nuovo spettacolo quando tu lo programmerai nel tuo teatro. In questo modo noi avevamo il credito e ci stavamo creando la vita futura del nuovo spettacolo. Abbiamo attivato questo meccanismo con piccole realtà e stiano restituendo le quote».
È una pièce in cui viene usato anche un linguaggio difficile: dove hai trovato questi testi, visto che nello spettacolo stesso dici che viene fatta piazza pulita di tutto ciò che testimonia questo fatto storico che è successo? Come hai trovato le fonti, visto che sono andate distrutte?
«Ho trovato questo saggio storico di Giovanna Paolini, che si chiama “Lo spazio del silenzio” in cui lei ha fatto un grandissimo lavoro negli archivi ecclesiastici, ha fatto il grande lavoro storico proprio perché mancavano molti documenti. Lei ha lavorato per analogie, ha studiato altri casi simili per estrazione sociale, tutti avvenuti in Friuli, di cui magari erano rimasti verbali di processi. Quindi alcune cose sono andate per simmetrie. Per alcune cose è un’ipotesi, l’elenco delle letture che fanno le clarisse, lei lo suppone e immagina prendendo i frammenti di un altro processo, di un uomo di pari livello sociale, che era stato accusato anche lui di eresia proprio a Udine. Per ò lei dice che la cosa fondamentale di queste clarisse è che loro veramente s i fanno mandare dentro al convento libri proibiti e questo è rimasto nella memoria».
Dipingi la società dell’epoca con un linguaggio che è quello della pubblicità televisiva, un certo tipo di pubblicità molto accattivante, per bambini che devono volere a tutti i costi quei prodotti. Poi diventa un linguaggio destinato a un pubblico che si è riscattato da quel tipo di desiderio consumistico imposto: prima le bambine che devono volere le bambole e quell’ambiente lì, il concept della pubblicità che ti impone un desiderio che non c’è, poi il pubblico, con la bambina piccola che cresce e che diventa critico.
«Sicuramente quando ho letto questo saggio storico mi avevano colpito moltissimo le analogie con la contemporaneità, le bambine vestite da suora, era allucinante l’analogia per cui mi interessava rendere evidente questa cosa che il pubblico percepisse che anche se stiamo parlando del ‘500, stiamo parlando di noi. È vero che il pubblico è consapevole, ma io come giovane ragazza che da piccola ha giocato con le Barbie, il passaggio che devo fare dopo è domandarmi: “io sono totalmente convinta di essere fuori da questo meccanismo? È vero o c’è ancora qualcosa che sedimenta sotto nel mio modo per esempio di vedere la sessualità? Che ruoli abbiamo noi donne oggi in questi rapporti? Come mi pongo io? Mi aveva colpito un’indagine fata da una professoressa di Cosenza, lei ha questo blog che si chiama “Studente reporter”, e loro sono andati in giro a chiedere a studenti del DAMS di Bologna, cosa pensassero del femminismo e delle femministe. Sia i maschi che le femmine dànno delle opinioni terribili: dicono che il femminismo è una roba della preistoria, che non serve più, che le femministe sono donne arroganti, avide di potere. Loro a un certo punto fanno un passaggio e chiedono com’è che a livello lavorativo ed economico noi donne non siamo effettivamente emancipate: non è che forse il fatto di avere questa libertà sessuale, ci fa credere di essere altrettanto libere in tutti gli altri settori e in realtà è solo una libertà apparente? Quindi questa cosa mi è sembrata utile da sviscerare».