NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Racconti di guerra, ma ricchi di umanità

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Racconti di guerra, ma ricchi di umanità

“Montagne che non sono le nostre”, “questa non è patria”. Oggi la parola patria in Italia ha forse sempre meno valore perché vuol dire orgoglio identitario, fiducia se non nelle istituzioni almeno in un ideale in qualche modo radicato. Secondo te perché questi racconti hanno ancora successo? È solo perché è una memoria ancora raccontata da testimoni oculari che l’hanno vissuta?

«Chiaramente il testimone oculare ha un’autorevolezza che diversamente, non essendo lì non puoi avere, l’autorevolezza di Rigoni è quella di uno che è andato a combattere, ha rischiato la vita ed è ritornato, questo è innegabile. La patria oggi sembra sempre che si caratterizzi per essere differente da qualcos’altro, non tanto per essere qualcosa. È sempre patria in confronto a chi non lo più, è o a chi lo è in maniera diversa, ma facciamo davvero fatica a dire che cos’è realmente la nostra identità. Ti riappropri di questa idea di patria che ti danno loro, ma è una patria vissuta, vera, di uomini, c’è una bellissima virilità per esempio, un concetto di virilità che noi abbiamo perso, che non è quello di prendere il moschetto in mano e di andare ad ammazzare gli altri, ma che è quella di chi si sa dimostrare anche debole, di chi sa aiutare un compagno o anche il nemico».

Questi racconti di guerra sembrano, tante volte, anche dei racconti di viaggio anche se l’umanità e la solidarietà, appunto, con chi dovrebbe essere il nemico, li accomuna almeno a una parte di quelli odierni perché molto spesso vedi per esempio gli afghani che chiedono aiuto alla comunità internazionale esprimendosi in inglese, per dire. Forse questi sono meno schierati politicamente? Risultano più autentici e attraenti di quelli contemporanei?

«C’è un distacco di più di 50 anni, è una cosa che riguarda gli altri e che noi vediamo in modo più distaccato e quindi ci possiamo ragionare in maniera tutto sommato più lucida, senza le sovrastrutture che comunque abbiamo necessariamente. Perché poi l’informazione ti costruisce anche una sorta di opinione, questa è una cosa che noi vediamo in maniera più distaccata, non nutriamo più l’odio per il tedesco o per il russo e questo ci permette quello sguardo distaccato per comprendere determinati aspetti che in quel momento non erano comprensibili della situazione perché si era troppo coinvolti. L’idea sarebbe che alla luce di quello che si comprende sull’esperienza degli altri si riesca in parte a leggere anche la nostra».

Racconti di guerra, ma ricchi di umanità (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)Come mai avete scelto una poesia di Anna Achmatova per il titolo? È una parafrasi tra l’altro.

«La cita lui e questo mi piaceva perché era una poesia rivolta a un nemico e gli dava questo spirito di rinascita e di ripresa. Mi piaceva l’idea che lui dedicasse una poesia russa al nemico russo e che parlasse di rinascita, cioè che gli raccontasse che quella terra dove lui era andato a combattere contro di loro sarebbe comunque rinata e credo che sia anche un forte messaggio di speranza».

Oggi se si devono fare dei film o fiction sulle guerre, lo si fa con storie più recenti; perché secondo te questi testi legati alla Seconda Guerra Mondiale o alla prima Guerra Mondiale rimangono più vincolati al teatro e l’interesse da parte del cinema comincia ad essere più affievolito?

«Il film di Diritti, “L’uomo che verrà”, parla della resistenza in realtà, anche lì parla dell’essere umano in condizioni particolari. La guerra di per sé al cinema è spettacolare, è come se dovessi fare un film di guerra che parla di qualcos’altro, un po’come “Uomini contro” di Rosi, ti racconta proprio della follia di questi che rimangono a morire durante la Prima Guerra Mondiale: ad un certo punto avevano recuperato delle armature quasi medioevali per cui c’erano questi che camminavano lentissimi e poi la mitraglia li abbatteva. Ti parla della follia umana, parlare della guerra per parlare della guerra si scende un po’ nella cronaca».

Forse oggi più che altro è appannaggio del cinema americano che lo fa per gloriarsi, per far vedere quanta tecnologia hanno, come sono ben addestrati.

«Si, ma sono film muscolari non ti parlano di umanità, è difficile in un contesto muscolare parlare in qualche modo di dolcezza, è quello che fa lui quando ti racconta della donna che gli dà da mangiare le patate lesse, è quello il tilt che ti crea lui e che va in corto circuito il sistema: ma stai parlando di guerra? È incredibile, è lì la forza sua, non ti parla mai di nemici, la parola nemico in qualche modo, se c’è, è sempre un interrogativo: ”la giusta reazione dei greci contro di noi».

 

nr. 17 anno XVIII del 4 maggio 2013



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