NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Rifugiati in teatro

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Zombitudine

Zombitudine (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Torniamo all’immaginario della nostra a generazione: tu hai fatto uno spettacolo sui robot dei cartoni animati di quando eravamo piccoli, con “Zombitudine” si ritorna al pop della nostra generazione, Michael Jackson, i mostri: quanto la cultura anglosassone del b-movie è stata determinante nella nostra creazione artistica? Come mai un contenuto sul momento storico degli italiani oggi può essere espresso facendo dei riferimenti a un’estetica non nostra? È tutto talmente alienato che non possiamo esprimerci e non riconoscerci nemmeno nella nostra cultura che si è fatta zombi anch’essa?

E.F.: “Se tu parli di come siamo cresciuti e siamo infarciti di cose, non a caso parliamo di colonizzazione anche in questo senso perché siamo diventati una colonia di immaginari importati e non nostri, che ci sono stati imposti in fondo".

D.T.: “Infatti il nostro continuo dirlo nello spettacolo ha questa valenza, se uno lo coglie non gli sembra una cosa detta a caso. Poi c’è anche Baudrillard, l’antropologia, la storiografia e 3 milioni di cose. D’altronde anche negli zombie, dietro, ci sta San Paolo e la resurrezione dei morti, già dall’origine nei film di Romero".

E.F.: “In Zombitudine” i due personaggi (che poi siamo noi, è una cosa un po’mista), in realtà come strumentazione per leggere il presente, e sono così confusi, hanno il telefono, vedono tutto in questo modo. Poi tra gli strati dello spettacolo ci trovi altro, il discorso sulla morte e tante altre cose".

Voi proponete una cultura pop-noir. Generalmente al pop si lega un’idea di leggerezza, di banalità: come si conciliano temi così difficili e a volte anche controversi e comunque ramificati, con una cultura caratterizzata dalla banalità, dal colore senza sfumature, della plastica? Come fa il pop a essere noir?

E.F.: “Abbiamo mescolato una serie di segni".

D.T.: “Il centro dello spettacolo è il presente, come hai detto benissimo tu prima, anche quanto le nostre giornate sono piene più di tentativi di promuovere lo spettacolo che di farne tanti, non c’è momento della giornata che non è invaso da qualcosa e poi c’è proprio un discorso sulla morte, sulla fine, sul teatro, la coppia teatrale Dario Fo e Franca Rame che affronta la morte insieme".

Ci sono due persone di oggi che si confrontano col nulla che però ti identifica perché catalogato: voi fate una lista lunghissima di gente, di categorie, però le identificate come morti, quelli che stano al di fuori, tu sei quello che sei se rientri in quella categoria, che nel momento in cui ha dei canoni si svuota di personalità.

E.F.: “Sì, è giusto sono d’accordo con questa interpretazione: questo svuotamento è dovuto all’appiattimento anche di tutte queste categorie e il vuoto è composto di questi tasselli, un’immagine puzzle che poi non si riconnette più perché poi non si riesce più a leggere la realtà così com’è".

Come mai avete voluto fare questi volantini con le scritte?

E.F.: “Siamo partiti anche da quei disegni, ci piacevano".

D.T.: “Lo diciamo anche nello spettacolo che sono una truffa volontaria anche rispetto allo spettacolo".

E.F.: “Tu vedi quello poi vedi uno spettacolo teatrale con questi vestiti anni ‘50".

D.T.: “È una cosa un po’ alla Lars Von Trier, c’è un’ambizione dello spettacolo ad uscire dallo spettacolo stesso, andando in giro coinvolgendo la gente, con una comunicazione non teatrale, è una cosa al limite dell’equivoco perché uno si aspetta una certa cosa. È comunque è uno spettacolo che è anche ambientato a teatro con lo stereotipo del teatro, il sipario démodé, retrò, noi vestiti come quando l’ultima volta che qualcuno andava a teatro ed era spettatore normale negli gli anni ‘50 in Italia, che andava a vedere Beckett, che noi citiamo qua e là, le ultime cose che qualcuno ha visto, a comprare i libri di Einaudi, le edizioni di Brecht, i primi che uscivano in Italia, che poi sono stati gli ultimi o quasi libri di teatro che sono stati pubblicati dalle case editrici grandi; c’è proprio il senso di un passato che non è arrivato al presente e di nostalgia".

Voi nella pièce ribadite che fuori dal teatro nessuna salvezza, quindi è meglio rinchiudersi nel teatro.

D.T.: “È un paradosso".

E.F.: “È tutta la nostra vita che è un paradosso, perché abbiamo scelto di fare questo e sappiamo di essere marginali, perché il teatro è marginale in Italia, non c’è niente da fare".

D.T.: “Non si salva nessuno neanche a teatro, tutto lo spettacolo ha una linea abbastanza chiara di riflessione sulla disperata inutilità di fare teatro, di essere qui a vedere teatro, come nei film di zombie che si rifugiano in cantina sperando di salvarsi e poi la cantina diventa una trappola: noi siamo rifugiati in teatro e poi il teatro diventa una trappola, anche noi non ci salviamo".

 

nr. 31 anno XIX del 13 settembre 2014  


Zombitudine (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

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