Un esordio attuale: la storia vera del fiume che scompare tra le province di Vicenza, Padova, Venezia e Verona. Un romanzo che anticipa il disastro chiamato Pfas, acronimo usato per la contaminazione ambientale che da quarant’anni avvelena le falde del nordest e colpisce tutti noi. Con Il fiume sono io (Edizioni Bottega Errante) Alessandro Tasinato ha raccontato una storia vera che, sia pure in forma romanzata, ha convinto i lettori e la critica, tanto da valergli il primo premio alla 36° edizione del Premio Letterario Gambrinus Giuseppe Mazzotti 2018.
Il protagonista del romanzo, Nino Franzin, ha vissuto la giovinezza in simbiosi con la Rabiosa, il fiume mortalmente inquinato dal distretto conciario di Chiampo e Arzignano e poi interessato dal cantiere dell’autostrada Valdastico Sud. Gli studi, la laurea, il miraggio di un’importante carriera lo costringono a dare al fiume le spalle. Sarà la vita di un piccolo embrione a fargli incontrare il fiume di nuovo. La Rabiosa, come il più solido degli spessori che compongono la stratigrafia della sua anima, era semplicemente sepolta da inconsistenti impurezze, che un’alluvione asporterà. Perché un fiume scompare dalle mappe ad un certo punto della storia? Un’indagine narrativa durata dieci anni che ha come cuore la Rabiosa, oggi Fratta-Gorzone. Un romanzo forte che si addentra nel territorio, nel mondo del lavoro e in quello più intimo di Nino Franzin, il protagonista, che ha vissuto la giovinezza in simbiosi con la Rabiosa. Gli studi, la laurea, il miraggio di un’importante carriera lo costringono a dare le spalle all’acqua. Sarà la vita di un piccolo embrione a fargli incontrare di nuovo i destini di un fiume che non c’è più. Un libro che riguarda tutti noi e che racconta il fragile equilibrio fra l’ambiente che ci circonda e le nostre vite.
La Rabiosa raccoglie le acque dai Monti Lessini e le distribuisce nella Bassa Padovana attraverso una rete complessa di canali e di fossi. Il nome di questo fiume compare nella cartografia a partire dal XVI secolo. Ne sono testimonianza una pergamena conservata presso la Biblioteca Civica di Verona, una carta redatta da Domenico de Rossi nel 1568 e conservata presso la Biblioteca del Museo Correr di Venezia e, più tardi, una rappresentazione della rete idrografica del 1747 di Giovanni Pinali conservata presso l’Archivio Storico Comunale di Montagnana. La parola Rabiosa però ad un certo punto scompare, tanto che oggi è sistematicamente omessa dalle etichette di Google Maps.
Scopo di questa indagine narrativa è ricercare il perché di questa scomparsa. L’idea iniziale - scrive l'autore - era quella di una ricerca prettamente storico-ambientale che avrebbe dovuto condurre alla stesura di un saggio. Una formazione trasversale come quella che avevo ereditato dalle Scienze Ambientali e l’esperienza maturata nella valutazione degli impatti delle attività industriali a Porto Marghera mi avevano persuaso di avere adeguati strumenti per condurre questo tipo di indagine. Del resto, le bonifiche del Cinquecento e dell’Ottocento, l’ urbanizzazione che ha reso il Veneto un’area metropolitana diffusa, l’inquinamento prodotto dal distretto conciario di Chiampo e Arzignano che aveva ridotto la Rabiosa a una tomba, erano state senz’altro le cause di una lenta e inesorabile perdita di identità da parte del fiume.
"Ero convinto che avrei senz’altro saputo tecnicamente esplorarle - scrive l'autore - . Tuttavia, mano a mano che il materiale da me raccolto si infittiva di studi, di libri, di cartografie, di relazioni sull’impatto generato dall’industria conciaria sulla qualità delle acque, di dati relativi ai monitoraggi ambientali sulla Rabiosa e delle informazioni raccolte nel corso di numerose interviste (essendo le fonti orali da me considerate alla stregua di altre preziosissime fonti) ho avuto l’impressione che un saggio non poteva bastare. Mi ero accorto di quanto fosse stato pregnante, sin dal Cinquecento, l’uso della parola in-culti. Era l’appellativo con cui venivano indicate le zone in cui la Rabiosa aveva naturalmente il suo libero sfogo. Luoghi paludosi, acquitrinosi, dominati dalle libere acque. La Repubblica Serenissima aveva istituito per i luoghi in-culti un’apposita Magistratura che aveva il compito di provvedere ad una loro radicale trasformazione, consistente fondamentalmente nel prosciugamento delle terre, nella sottrazione delle acque e nella conversione dei luoghi in-culti a luoghi finalmente c(u)ltivabili, da cui trarre ovviamente profitto. Era in questa dinamica – mi resi conto – nella lotta ai luoghi in-culti cioè, che andava ricercata la ragione della progressiva scomparsa della parola Rabiosa. Ed era sempre attraverso la lotta ai luoghi in-culti che da cinquecento anni in Veneto si era andata rafforzando quella visione del mondo per cui i luoghi in-culti devono essere inequivocabilmente sfruttati. Nino Franzin, protagonista di quella che mi sento di definire un’indagine narrativa con la quale alla fine ho più opportunamente perseguito l’obiettivo di questo progetto, si inoltra perciò in una nuova e più avventurosa ricerca che investe la “topografia culturale” nel suo complesso. È un personaggio che pur appartenendo a tale topografia, trova ad un certo punto la forza di uscirne, di guardarla da fuori, di provare a ridisegnarla ex novo. La ricerca dei luoghi in-culti, la ricerca dei luoghi in-culti in senso lato cioè, diventa per lui un percorso obbligato attraverso il quale allargare una determinata e consolidata visione del mondo.
Abbiamo incontrato l'autore e dialogato con lui.