NR. 41 anno XXVIII DEL 25 NOVEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Ex Jugoslavia: la speranza si chiama Unione Europea

di Stefano Stefani
Presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati

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Ex Jugoslavia: la speranza si chiama Unione Europe

Quanto al Kosovo, pur essendo evidente che non si può tornare indietro rispetto al presente status, pesa il fatto che solo 65 Stati ne hanno riconosciuto l'indipendenza e che mancano all'appello ben 5 Stati dell'Unione europea (Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia, Cipro). Le autorità di Pristina sono comunque ottimiste sul futuro e si dicono impegnate nella lotta al crimine organizzato, che resta il vero pericolo incombente sulla regione. Si attende intanto per giugno la pronuncia della Corte internazionale dell'Aja che le Nazioni Unite hanno richiesto su sollecitazione serba. Il problema dell'integrazione della minoranza serba nelle nuove strutture statali resta perciò ancora aperto soprattutto nella parte settentrionale intorno a Mitrovica: quel che manca è la fiducia nella convivenza, anche perché le forze dell'ordine kosovare si vanno costituendo senza un'adeguata proporzionalità etnica nonostante l'impegno della missione europea. Viva preoccupazione per il ridimensionamento della presenza internazionale viene perciò espressa dalle autorità religiose ortodosse, che vedono a repentaglio la sicurezza dei loro luoghi santi, mentre si stanno preparando ad accogliere il loro nuovo patriarca, Ireneo, la cui cerimonia di intronizzazione a Pec, prevista per il 25 aprile, è stata rinviata all'autunno. La nostra missione, facendo tappa dopo gli incontri politici a Pristina presso il monastero ortodosso di Decani, ha confermato la sensibilità dell'Italia al riguardo e ribadito le rassicurazioni del Governo sulla garanzia dei livelli di sicurezza assicurati dalla KFOR anche nel suo nuovo dispiegamento. 
Una situazione certamente più positiva si è registrata a Skopje, una città in crescita economica ed in fermento culturale, una via di transito decisiva per il corridoio n. 8. Il delicato equilibrio interetnico, in cui almeno una parte della minoranza albanese ha accettato di collaborare al governo nazionale, sembra affidato alla risoluzione della controversia nominalistica con la Grecia ed alla concretizzazione della prospettiva europea: da troppo tempo, però, il Paese non va avanti rispetto al riconoscimento dello status di Paese candidato proprio per il contenzioso con Atene. È forse venuta l'ora di far prevalere sulle pur legittime rivendicazioni la logica dell'accordo ad ogni costo, perché la posta in gioco sta diventando troppo alta.

Molto lusinghiere sono anche le impressioni che si ricavano a Belgrado. La maggior parte delle forze politiche, anche quelle un tempo legate al passato regime, hanno compreso le ragioni dell'integrazione europea. La democrazia serba ha sinceramente fatto tutto il possibile per collaborare con il Tribunale per i crimini dell'ex Jugoslavia ed è pronta ad assumersi tutte le responsabilità del tragico passato, purché le sia consentito di guardare al futuro. Diventa perciò ormai improrogabile superare gli ostacoli che ancora si frappongono alla ratifica dell'Accordo di stabilizzazione e di associazione con l'Unione europea. Belgrado si rivolge naturalmente anche a Mosca e non può non intrattenere un rapporto privilegiato con quella che storicamente è stata una capitale di riferimento, ma è assolutamente e prioritariamente orientata verso l'Europa. Resta il problema del Kosovo: ma come Belgrado dovrà ammettere che non si può tornare più indietro, così Pristina non potrà continuare ad ignorare che i riconoscimenti dell'indipendenza che ancora le mancano sono dovuti proprio al fatto che non sia maturato un modus vivendi con l'antica capitale.

In una terra così martoriata, non possono ovviamente mancare i profeti di sciagura. Gli scenari più tempestosi sono facilmente evocati ad ogni angolo di strada: appunto la Serbia come longa manus della Russia, la Grande Albania che si amplia al Kosovo e alla Macedonia, la Croazia che proietta la sua influenza sulla Bosnia Erzegovina che a sua volta rischia la spartizione, il crimine organizzato e il narcotraffico che spadroneggiano ovunque. Tuttavia, occorre prendere atto della maturità delle nuove classi dirigenti che considerano un articolo di fede l'intangibilità dei confini perché hanno ben presente i rischi che potrebbero derivare da una anche minima loro modificazione (e certamente temono esiti simili a quelli del Caucaso meridionale!).

Cosa resta allora da fare all'Italia? Continuare innanzitutto a sostenere l'ingresso nell'Ue di tutti i Paesi dei Balcani occidentali, anche prima di quello nella Nato, a differenza di quanto avvenuto nel precedente allargamento ad Est, in considerazione delle particolari vicende della regione. In secondo luogo, occorre sostenere l'economia con investimenti e delocalizzazioni, che si avvantaggino della professionalità della manodopera. L'Italia può inoltre offrire modelli di tutela delle minoranze, come quella tedesca, che potrebbero essere presi ad esempio in alcuni Paesi. Infine, sul piano bilaterale, il dialogo politico deve proseguire a tutti i livelli, sia parlamentare, sia governativo, per consolidare la democrazia e coniugarla con il rispetto delle identità e delle tradizioni. Tutti i tentativi di omologazione dei Balcani occidentali sin qui tentati sono falliti, perché la realtà dei popoli si è rivelata più forte delle utopie disegnate a tavolino. È bene evitare che anche l'europeizzazione non si configuri come tale. Mai come in questa regione deve trovare applicazione il motto dell'Unione europea: "unità nella diversità".

nr. 09 anno XV del 13 marzo 2010

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