NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Come imparare a vivere nel limbo

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Come imparare a vivere nel limbo

Come possa accadere tutto questo senza che si riesca a prefigurare una prospettiva un po’ meno allarmante non si capisce. Chiediamo lumi ai nostri ospiti.

brunello igor (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)IGOR BRUNELLO- Il guaio è che la memoria è normalmente corta. Può succedere tuttavia perché a norma di legge accade quanto segue: il governo di fronte all’emergenza libica e alle persone che sbarcavano in Italia ha deciso di accoglierli; dopo di che ha deciso che tutte queste persone dovevano fare richiesta di asilo politico, non l’hanno scelto loro, ma è stato imposto dall’alto per cui chi cerca regolarizzazione deve passare attraverso questa formalizzazione che viene eseguita dalle commissioni. Fino a quel momento si resta in Italia con un permesso di soggiorno, in attesa del responso. Inizialmente il termine era di tre mesi poi è diventato rinnovabile. L’asilo politico ruota attorno allo stato di rifugiato, categoria internazionale, concessa a chi per nazionalità o altro nel suo paese di origine rischia la vita o rischia di subire un grave danno. Abbiamo migliaia di persone in questa condizione e che provengono come passaporto per la maggioranza da paesi abbastanza tranquilli, ma che in realtà sono fuggiti da situazioni di guerra o di rivolgimenti politici come nel caso della Libia. La commissione tiene conto della provenienza del passaporto, non dell’ultima situazione personale. Per cui a meno che uno non abbia una storia di sofferenza legata al proprio paese rischia di sentirsi rispondere con un diniego. Si può fare ricorso e in questo caso si torna nella posizione di attesa dell’asilo fino al prossimo giudizio e si riceve di ritorno il permesso di soggiorno. Nei luoghi assegnati per la residenza dopo sei mesi si può anche lavorare, ma comunque si aspetta. Il problema è che nel momento in cui si chiude la pratica a tutti i livelli anche di ricorso questo permesso di soggiorno non è per legge convertito. Magari dopo un anno si vedono respinti e tutto quanto è stato fatto non serve, debbono tornare a casa. Che li abbiamo accolti, sostenuti, aiutati, non serve a niente anche se nel momento del loro arrivo era chiara la loro appartenenza a un paese in guerra. È una contraddizione fortissima che bisognerà superare anche perché in gioco ci sono emozioni, coinvolgimenti, risorse: cose di umanità, incalcolabili, non eludibili. Teniamo presente che nel momento in cui sono respinti possono fare ricorso al tribunale, ma se dopo 30 giorni non hanno fatto ricorso lo Stato li espelle. Verso dove? Verso un paese che li accoglie, il loro paese, in genere. Ma c’è anche il problema tipico nostro in Italia per cui non si riesce ad espellere nessuno. Questa è la situazione reale.

GIOVANNI GIULIARI- La situazione di Vicenza ci vede accogliere 42 persone come massimo e ora sono 38. È una esperienza che viviamo con soddisfazione. Sono persone che hanno capito l’atteggiamento della nostra accoglienza, ed hanno anche capito che ci sono regole da rispettare. Sono nella struttura dei Paolini e si trovano bene, salvo il seguito che diceva Brunello. Debbo dire che al Prefetto noi abbiamo da subito sottolineato un particolare: non abbiamo chiesto noi di accogliere queste persone, ma è lo Stato che ce li ha mandati invitandoci a fare la nostra parte con le risorse che ci vengono attribuite. Abbiamo posto una condizione, disponibilità a condizione di un progetto di inserimento, non in albergo, ma un accompagnamento vero. Ora la situazione è delicata, si sono create difficoltà nell’accompagnare queste persone che non vedono chiarezza nel loro futuro. Svolgono servizi volontari per la comunità coordinati da Valorecittà, così come vengono utilizzati per altri servizi con gruppi, parrocchie, associazioni, un modo volontario di rispondere all’ospitalità mettendo a disposizione le loro competenze, che ci sono. Non è gente che ozia o va in giro a chiedere l’elemosina. Tutti avevano un’attività, anche imprenditoriale, tutti sanno fare qualcosa. La loro sofferenza è di non avere un lavoro e la loro buona volontà si è vista subito dal momento in cui hanno cominciato a frequentare corsi di Italiano. Debbo dire che in questo modo si sono superate rapidamente le diffidenze iniziali. La gente ha conosciuto subito queste persone e le ha apprezzate perché soffrono una condizione terribile, ma hanno una carica umana assolutamente rilevante. Ora ci preoccupa che la regia dei flussi migratori venga scaricata sui Comuni; alcune persone rifugiate hanno avuto il diniego delle commissioni e naturalmente sono uscite dalla struttura e andate in clandestinità; molti sono in attesa, altri hanno permessi più lunghi. L’incertezza è totale. Importante è muoverci insieme con associazioni, Prefettura, Caritas e tutti gli altri interlocutori del sociale per fare in modo che il governo faccia veramente un gesto di accoglienza. La prima convenzione di sei mesi è già scaduta e ora andiamo verso la prossima scadenza che va al 29 di febbraio. Se entro quella data il governo non manifesta una nuova disponibilità definitiva sul problema porremo tutto nelle mani dei prefetti. Non vogliamo più illudere nessuno e nemmeno creare clandestinità nel nostro territorio. Vogliamo le condizioni ideali perché i rifugiati vivano normalmente e non cadano nelle mani della clandestinità o della delinquenza. Non saremo noi a produrre clandestini.

Come imparare a vivere nel limbo (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)

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