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Carollo, lei ha scritto diversi libri sulle montagne vicentine, questo in cosa si differenzia dagli altri?
«Essendo la terza edizione della Guida escursionistica delle Valli di Rio Freddo, Tovo, Laghi e Altopiano di Tonezza (la prima era del 1983), è frutto di una maggiore esperienza e i sentieri sono più numerosi rispetto alle prime edizioni. Purtroppo, oggi non ci sono più a disposizione tutti quei testimoni che negli anni ’80 del secolo scorso potevano darti spiegazioni, indicazioni, suggerimenti sui sentieri e sul perché vennero tracciati. I testimoni della civiltà agricola di valle, che durò fino a metà degli anni ’60, oggi non ci sono più e pochissime persone possono portarti sui sentieri e parlarti per esperienza diretta. Questo è un handicap per chi vuol stendere una guida sui sentieri di montagna. Bisognerà forse puntare di più in futuro su documenti d’archivio oggi pochissimo sfruttati, ma che indirettamente possono fornire cospicue notizie».
Quali sono per lei le bellezze e i pregi della nostra fascia pedemontana?
«Uscire dalla pianura alto vicentina, piena di cemento, di smog e di rumori e porsi a contatto del silenzio dei boschi, osservare qualche animale, guadare torrenti e osservare profili selvatici di creste significa ritemprarsi, ma anche acquisire serenità e pace nell’animo per poter poi riprendere con lo stress quotidiano segnato dalle lancette dell’orologio. Non va sottovalutata questa funzione oserei dire sanitaria delle nostre valli. La nostra zona prealpina è sempre stata un'area di confine tra stati - tra la Serenissima e i feudatari imperiali, tra Impero asburgico e Regno d’Italia -. Molti i segni, i cippi di confine ancora rinvenibili. È stata poi colonizzata nel Medioevo da immigrati di origine germanica - i cosiddetti cimbri - che hanno lasciato tracce significative, specie nella toponomastica. È una zona che vide il passaggio di due guerre mondiali: postazioni, fortificazioni, sentieri militari, lapidi, iscrizioni sono presenti ovunque. Nella Seconda Guerra Mondiale queste valli erano strategiche per i nazisti. Infine, rimangono tracce cospicue di una civiltà montanara secolare, sparita troppo in fretta sotto l’urto dell’industrializzazione accelerata degli anni ’60 e ‘70. Sono i terrazzamenti che cesellano i pendii delle valli, le contrade dall’architettura essenziale, le fontane, le carbonaie, le calcare, i casòni, i capitelli, le icone su roccia».
Una bellezza naturale da riscoprire, dunque?
«Grazie a queste tracce le nostre valli spingono anche a riflessioni di carattere sociale ed etico. Le terrazze per l’agricoltura di pendio fanno riflettere sul valore che i nostri vecchi attribuivano alla terra, vista come madre, come fonte di cibo e di vita. Oggi la terra è vista da noi come materia da cementare e da asfaltare: solo allora ha un valore. Le contrade rimandano alla sobrietà di quelle comunità di montanari, ma anche ai rapporti sociali vivi e stretti che esistevano - bisognava stare uniti se non altro per difendersi dalle avversità ambientali -. La cura dei pendii, la pulizia nei boschi, i muretti a secco contro le frane parlano della cura che si aveva dell’ambiente, visto come risorsa, unico capitale, fonte di vita. I capitelli, le icone nei siti più selvatici e pericolosi, rimandano ad una fede semplice, senza filosofie, ma che dava sicurezza, serenità e forza interiore per superare le tante avversità. Non si vuole tornare a quella realtà, non si vuole mitizzarla, però è vero che, demolendola, abbiamo buttato alle ortiche anche molti valori che oggi si rivelano indispensabili anche per superare la crisi che abbiamo di fronte, che per me non è solo economica».
Una piccola provocazione... è un bene o un male che queste valli siano ancora ai margini del turismo?
«Non sono vocate a un turismo di massa: sono valli ristrette, pregevoli sotto l’aspetto ambientale. La loro bellezza deriva proprio dal fatto che sono rimaste quiete ed appartate. Visto l’intasamento edilizio dell’Altopiano dei Sette Comuni e del probabile sventramento della Val d’Astico, quest’area nei prossimi anni sarà una delle ultime riserve di quiete, di paesaggi naturali e di ossigeno per l’Alto Vicentino e forse anche zona di qualche sperimentazione di recupero agricolo. Bisognerà trovare le modalità giuste di offerta di questi beni. Magari ad offrirli saranno giovani venuti da fuori, vista la sparizione dei giovani locali e la tendenza in atto di ricolonizzazione, con recupero delle contrade, da parte di vicentini, padovani, gente di pianura insomma».
