Tu e la tua amica arrivate in Grecia e vi imbattete nella notizia degli albanesi del primo sbarco in Puglia con il nome della nave Vlora, la citazione del film di Gianni Amelio. L’immagine di questa nave ti tormenta per anni. Poi dici che la massa è fatta di infiniti nessuno e dici che i nazisti hanno fatto quello che hanno fatto con gli ebrei e gli zingari perché li consideravano una massa e la massa della nave deve diventare un coro capace di raccontarsi. Non ti sembra un paragone un po’ riduttivo? Questa massa di gente che è arrivata non è stata raggruppata con un intento che aveva delle modalità industriali come è avvenuto per gli ebrei.
“No però concettualmente e politicamente, da quel primo grande esodo che noi abbiamo subìto, si è poi arrivati alla legge Bossi-Fini. Io sono stata nei campi di permanenza prima che li mandino via, proprio in quegli anni, non è nazismo perché grazie a Dio non c’è un’organizzazione militare né tantomeno un’ideologia di quella portata ma il trattamento che molte di quelle persone subivano e subiscono è ai limiti dell’umano. La società può arrivare a non nutrire forme di razzismo pesante se smette di considerare quella gente come un numero di persone fastidiose che se ne vadano il prima possibile ma che cominci a considerarle persone con un nome e un cognome, come un coro alla greca. Dopo di ché non è che hai risolto il problema, noi non siamo abbastanza grandi come Paese, né forti per tenerli. Bisogna che l’Europa aiuti, che esistano politiche di integrazione molto potenti e che il Medio Oriente e la Cina aiutino, che sono enormi, che le economie più potenti si prendano a carico questa gente che affronta cose disumane pur di scappare. In questo senso, anche lì, la sintesi teatrale mi obbliga a immagini forti e riduttive però credo profondamente che il coro greco ci insegna proprio che il pericolo è nella massa: infatti i greci parlavano di coro, la parola massa non esiste nel vocabolario greco. Persino alla massa davano un termine, li chiamavano barbaros perché erano molto snob i greci, molto razzisti paradossalmente. Lì io faccio una semplificazione enorme, quando il Rocci dice che l’ospite ( xenos) è un dono: l’ospite certamente è un dono però nel senso greco del termine: quindi se sei greco. Già se tu sei un barbaros è diverso, se gli arrivava uno spartano prima della guerra ad Atene, massimo rispetto”.
La scena in cui racconti delle ragazze albanesi che cantano è bellissima: perché tu sfidi questa postar albanese che stava in quest’accademia, cantando l’aria di Madalena “I don’tknow how to love him” dal Jesus Christ Superstar con un inglese italianizzatissimo e loro rispondono con qualcosa di proprio, tramandato, autentico e ancestrale. Il pregiudizio iniziale nei nostri confronti da parte del gruppo albanese sembra che abbia del fondamento perché tu cerchi di smuoverle con una canzone che, per quanto bella, ha una cornice culturale che non ci appartiene, invece loro ti rispondono con loro stesse.
“Sono d’accordo con te. Se questa grande cantante, Aurela, ha deciso di rispondermi e loro hanno cantato era perché a loro importava che io mi fossi “calata le mutande” e che io avessi accettato. Fu un momento davvero molto emozionante perché era Ettore contro Achille: io ero Ettore e lei Achille. A loro interessava vedere se potevano fidarsi di me: non si fidavano di una persona che non era disposta, di fronte a tutti, a rischiare la faccia. Io capii che avevano accettato ma perché io mi ero esposta in un modo e un linguaggio che loro capivano. Era bello perché c’era qualcosa di estremamente ancestrale, era una battaglia epica. Poi loro sono estremamente competitivi e naturalmente orgogliosi perché si sono sentiti che l’albanese era sfigato, pappone, scafista, merde: erano indietro e arretrati culturalmente e quindi le tradizioni ce le avevano fortissime; lei nei suoi concerti era un’allucinazione, alternava canzoni come queste a “Don’t speak” dei No Doubt. Era l’Albania dove ogni casa aveva 3000 paraboliche ma avevano ancora i carretti con gli asini negli anni ’90”.