NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Eravamo tutti figli suoi

di Alessandro Scandale
a.scandale@gmail.com

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Eravamo tutti figli suoi

La storia inizia con il lungo viaggio in nave verse le Americhe e lo sbarco nella "terra promessa", in Brasile: Finalmente ci portarono all’Ilha das Flores. Se prima, nel vapore lungo il viaggio ci eravamo ormai sentiti una grande famiglia, ora venivamo cacciati dentro un casermone senza riguardo per donne e bambini, come se fossimo stati delle bestie. Lì vidi gente ancor più diversa. Parlavano lingue ancora più incomprensibili e molti di loro, forse per il colore terreo della pelle e i lineamenti del viso spigolosi, mi parevano più poveri di noi. Lì dentro la miseria non aveva fine. Mio padre ci disse che venivano dalla Turchia, dalla Russia, dalla Polonia, dalla Grecia. Ma ben presto il richiamo della propria terra si fa sentire, con il ricordo della natìa Schio, dove nel frattempo era nata la grande industria tessile, capitanata dai Rossi: Suo padre lo aveva fatto studiare in seminario, ma non per fargli fare il prete, ce n’era un altro in famiglia. Alessandro aveva lavorato anche come operaio nella fabbrica paterna, e poi ha viaggiato, ha studiato, ha immaginato e realizzato. Visitando vari stabilimenti in Italia e all’estero, aveva capito come trasformare la lana grezza in morbidi panni, nobili mantelli, divise per i militari. Eh sì, ha formato un piccolo impero attorno alla fabbrica: asili, case, teatro, mense, convitto, scuola, dopolavoro... Si fece pensieroso e proseguì: E pensare che tutto è cominciato con le pecore. E con l’acqua. Senza le pecore e senza la roggia i lanifici di Schio, Torre, Pieve non sarebbero mai sorti.

Eravamo tutti figli suoi (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Una nostalgia che porterà la famiglia, orfana di padre, a rientrare in Italia: Eccoci qua, un’altra volta in viaggio, più poveri e più numerosi di prima. Che brutto scherzo mi ha fatto la vita! In piedi, sferzata dal vento, con un fagottino in braccio bagnato di lacrime e spruzzi di acqua salata, mia madre guardava il profilo di quella terra che si era presa suo marito e le aveva fatto cadere i denti e portato altri due figli, così eravamo in sei... A casa però li attendevano condizioni lavorative difficili: All’indomani delle elezioni politiche del novembre 1904, che videro vincitori i socialisti a Magrè e a Schio e i popolari a Torre, Giovanni Rossi pubblicò un manifesto che fu affisso negli stabilimenti del lanificio in cui diffidava tutti gli operai dal mischiarsi con i sovversivi... Lo stanzone era talmente lungo che gli uomini laggiù parevano bambini. Lunghe cinghie e carrucole si alzavano verso il soffitto e scendevano a triangolo. I telai sollecitati si risvegliavano a fatica, dapprima isolati poi sempre più numerosi. Iniziava la giornata. A poco a poco tutto diventava fatica tra le grida del capo, i visi contratti degli operai e quelli intimiditi di noi ragazzi, il sudore dei corpi e i filati sputati dalle macchine. Guardavo in su sbigottita, con un senso di vertigine, quelle alte cinghie di cuoio con le carrucole e i telai altissimi che scendevano; e quando la luce del tramonto filtrava attraverso le vetrate e si inseriva nei filamenti in una scia ininterrotta, mi pareva di stare sospesa fra le nuvole. Era l’unica luce, di pomeriggio, che mi scaldava il cuore dove tutto era grigio e scuro, comprese le divise da piccoli operai, le bestemmie degli uomini, le espressioni dei visi, il sapore del pulviscolo di lana e quello di alluminio delle gamelle in cui la minestra si era fatta un blocco. Tutto era cupo.

Poi, improvvisa, irrompe la Grande Guerra che nell'Alto Vicentino aveva il suo punto nevralgico: I combattimenti sui monti si inasprirono a metà maggio, non ricordo quanti mesi durarono, forse tre. Il fuoco era incessante e più di una volta in paese scambiammo gli scoppi per terremoto. Si viveva nel terrore di morire sotto una granata. E allora anche i più scettici o i più convinti della bontà della guerra si dovettero ricredere. Se si continua così, gli austriaci scenderanno, c’invaderanno e torneremo tutti sotto l’imperatore, di nuovo, disse mia madre dopo aver sentito le ultime voci fuori della chiesa. Iniziarono a trasportare giù dalla montagna i morti e i feriti a decine e decine; e mentre aprivano nuovi ospedali di emergenza, alcune donne in fabbrica raccontavano che venendo al lavoro vedevano sulle strade scie di sangue ininterrotte. Per tutto il giorno poi, attorno al telaio lavoravano e piangevano... Non c’era niente di buono da sperare nel domani. Le giornate scorrevano grigie come il piombo. La fabbrica, la guerra, la prigione di mio fratello. Mi pareva di vivere una situazione senza sbocco. Un grande desiderio di fuga si insinuò in me. La fuga con la famiglia l’avevo già vissuta. E non era andata bene. Ma l’idea di trascorrere tutta la vita al chiuso della fabbrica mi faceva star male. Non volevo diventare sorda e con la schiena piegata come zia Agnese. Avrei voluto stare di più all’aperto, respirare libera senza imbattermi continuamente in soldati, muli e camionette. Avrei desiderato vedere più spesso il colore dei tramonti dietro il Pasubio, anche se non erano più quelli di prima. Qualsiasi cosa all’aperto, pur di rompere la catena della fabbrica.

A Maria Facci abbiamo rivolto alcune domande.



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